Mondo
Quegli italiani al fronte per riempirsi la vita
Intervista a Eliseo Bertolasi, russista, antropologo e corrispondente dal Donbass per “Voce della Russia – Italia” che ha incontrato sul fronte della guerra Ucraina diversi italiani. Un fenomeno, quello di chi parte dall'Occidente per andare a combattare nei territori caldi del mondo che «Non è una questione di soldi. Chi va a combattere lo fa per gli ideali e per vivere emozioni»
Nel dopo Parigi, con la strage di Charlie Hebdo, uno dei dati più preoccupanti è che tutti i ragazzi che hanno tenuto in scacco la capitale francese e perpretrato gli attentati erano cittadini francesi. Nati e cresciuti nel cuore dell'Occidente. Un fenomeno però che non si limita alla Francia e non si chiude con la questione islamista. Sono tanti infatti i giovani, anche italiani, che partono per raggiungere i fronti più caldi del pianeta. Perchè? Abbiamo chiesto al russista Eliseo Bertolasi (nella foto di copertina), che nel suo ultimo viaggio sul fronte della guerra Ucraina ha incontrato alcuni italiani, di provare a spiegarcelo.
Lei, è tornato dal Donbass, sul fronte ha incontrato degli italiani che combattono con i filorussi. Perché un occidentale dovrebbe sentire il bisogno di andare a combattere questa guerra?
Si! A Donetsk ho incontrato dei volontari italiani che sono accorsi nel Donbass a sostenere la causa dei filorussi: due dalla Lombardia, uno dalla Sardegna. Ma, come riportato da altre testate nazionali, sappiamo che ci sono italiani anche dall’altra parte del fronte che combattono con i battaglioni punitivi delle forze ucraine. Il governo di Kiev ha addirittura promesso la cittadinanza ucraina a quegli stranieri disposti ad imbracciare le armi per “punire” la popolazione filorussa o russa che vive (da secoli) nelle regioni del Donbass. Dovendo tracciare un denominatore comune: tutti sono convinti di far “qualcosa di buono”. In questo “qualcosa di buono” s’intrecciano, più o meno, motivazioni di tipo ideologico unite al desiderio di dare un “senso” alla propria esistenza individuale. Non a caso i due ragazzi lombardi che ho incontrato a Donetsk mi hanno detto: «Siamo qua perché è giusto stare qua, siamo venuti ad aiutare ce n’era proprio bisogno, basta stare male in Italia!». Come pure il ragazzo della Sardegna mi ha riferito: «Una volta nella vita ho voluto fare qualcosa di utile nel mio piccolo, perché io sono una goccia nel mare, sono venuto qui, farò quello che mi è possibile». I filorussi stanno combattendo per l’indipendenza della loro Terra, per difendere la loro identità culturale e linguistica da un Paese, l’Ucraina, che oltre a non essere più attivo nella regione, è ormai considerato un forza d’aggressione. Le forze combattenti delle autoproclamatesi Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lugansk sono costituite da volontari, la maggior parte di loro sono nativi del Donbass; combattono per difendere la loro patria e la loro famiglia. Ci sono inoltre molti volontari arrivati dalla Russia, tra di loro anche diversi caucasici: ceceni, osseti, abkhazi. Tutti sono convinti che il Donbass, oggi, rappresenti la prima linea di difesa della Russia. Se cadrà il Donbass, mi dicono, Kiev proseguirà la guerra attaccando la Crimea, a quel punto il confronto diretto con la Russia sarà inevitabile, con le ben ipotizzabili conseguenze di una terrificante escalation addirittura di tipo atomico. Tra i volontari stranieri al di fuori delle ex-repubbliche sovietiche, so che ci sono anche serbi, francesi e spagnoli. Al fronte, personalmente, oltre ai tre italiani, ho incontrato anche un tedesco e un afgano.
E qui mi affido a te per capire. È solo una questione di soldi, vengono pagati per combattere?
No! Non è una questione di soldi, nel Donbass non si combatte per i soldi ma per gli ideali. Viene solo dato vitto e alloggio. Tutti i combattenti che ho intervistato, non solo i pochi italiani, si autodefiniscono “volontari” specificando e sottolineando che non sono mercenari. Il volontario è motivato da ideali, chi, invece, vuole guadagnare si arruola nelle varie agenzie occidentali di contractors, i guadagni non sono male in aggiunta al bottino di guerra! Nonostante ciò, oltre alle motivazioni di tipo ideologico, ritengo sia sempre presente anche una certa propensione a vivere l’emozione di un’esperienza forte come la vita al fronte. Una sorta di passione per le armi e per la vita militare.
Ma questa è una guerra che non gli appartiene!
Al contrario! Nel momento che si combatte per degli ideali, diventa assolutamente una guerra che appartiene. Non è più solo, o anche, come per i russi del Donbass, una questione di difesa e d’indipendenza territoriale. Se un volontario straniero lascia tutto: una vita tranquilla, probabilmente un lavoro, gli agi, le comodità, gli affetti, una famiglia, per accorrere a combattere nel Donbass, gratuitamente, può essere solo una questione di forti ideali. Tra i filorussi si parla di antifascismo e di lotta ai nuovi nazisti (quelli di Kiev), non ha caso è stata ripresa tutta la simbologia sovietica: dalla stella rossa con la falce e martello, a Lenin, fino ai simboli della Grande Guerra Patriottica quella combattuta e vinta contro il nazismo. In contrapposizione, dall’altra parte del fronte, i battaglioni della guardia nazionale ucraina si richiamano alla simbologia nazista: dalle parate con le fiaccolate dove si inneggia ai nazionalisti ucraini che nelle Seconda Guerra mondiale combatterono coi tedeschi, fino alle stesse rune usate a quel tempo dai nazisti, per designare le proprie divisioni.
C'è qualcosa di più profondo, una ricerca di senso frustrata che non trova risposte nella società consumistica occidentale?
Si è palese! L’uomo per sua natura non può essere solo un “consumatore”, come ci viene fatto credere e come ci viene imposto dalla società in cui siamo immersi. L’uomo non può ridursi a un “consumatore ossessivo” che divora compulsivamente beni materiali fino a ingozzarsi! È proprio nel momento in cui si cerca di dare un senso alla propria esistenza, che immediatamente ci si rende conto che la vita non può e non deve essere semplicemente: lavorare, guadagnare spendere. Un ciclo vizioso che tende sempre di più a chiudersi su se stesso fino a pervadere totalmente la vita di un individuo. La vita non è un supermercato! Se così fosse, aimè! Quanto sarà caro il conto finale!
Ma la società consumistica occidentale ha bisogno di questo nuovo soggetto: in effetti, mondialismo e globalismo si basano sull’individuo vuoto, amorfo, privato dei suoi significati più profondi, che trova gratificazioni nell’acquisto compulsivo.
Come l'Occidente può affrontare la questione: dove e perché la nostra cultura ha fatto corto circuito e non riesce più a dare risposte, ideali e orizzonti?
La nostra cultura va in corto circuito nel momento in cui si cerca di disumanizzare l’individuo privandolo del significato della sua memoria, delle sue radici culturali, religiose.. o, in altre parole, dove l’individuo pur consapevole delle proprie radici, è portato a banalizzarle. La crisi dei grandi sistemi ideologici in Occidente ci ha portato ad assolutizzare l'effimero e il banale, privilegiando la superficialità della cultura di massa consumistica. Qui ci si addentra in profonde questioni filosofiche: secondo il noto politologo e filosofo russo Aleksandr Dugin, l’uomo occidentale come individuo puro, spogliato dai suoi vincoli con la collettività, la religione, il gruppo, la tradizione.. non può esistere, è solo un concetto, un concetto nichilista che gli americani vogliono imporre con la forza a tutta l’umanità. L’uomo moderno americano è totalmente individualista, diverso dall’uomo europeo che, invece, ha delle precise radici con diversi livelli di appartenenza: alla società, alla religione, alla cultura, alla tradizione. Sempre secondo Dugin, quindi, l’Occidente non è l’Europa. L’Europa colonizzata culturalmente, geopoliticamente, strategicamente dagli USA ha perso la sua identità, le sue radici. In effetti, come sostiene l’amico e filosofo Diego Fusaro ciò che noi chiamiamo “globalizzazione” in verità corrisponde all’invasione del mondo intero da parte della forma merce e del mercato globale di tipo capitalistico. Il capitale con la globalizzazione vuole vedere ovunque e sempre la stessa cosa: merce, economia, lingua inglese, pensiero unico. Il capitale globalizzato odia le differenze e deve sopprimerle per imporre ovunque il medesimo sistema, il medesimo ordine. Per tale ragione, la Russia di Putin, che resiste a questo tentativo di assimilazione tenendo vivo il multipolarismo anche culturale, è oggi sotto attacco da parte delle forze che guidano la globalizzazione a guida statunitense. La Russia di Putin si erge, sempre di più, come l’unico bastione a difesa di quei "valori tradizionali", come la religione, la famiglia tradizionale.. che per millenni hanno costituito l’ossatura di ogni nazione civilizzata. Ecco che allora la società tradizionale russa, ortodossa, anti-occidentale ma non anti-europea, anzi pro-europea (se si considera l’Europa un’entità tradizionale radicata nella sua dimensione continentale terrestre) può diventare un polo d’attrazione anche per molti cittadini europei. Putin ha tenuto a rivendicare come giuste e necessarie per il Paese le politiche di difesa dei minori e della famiglia, come pure la controversa legge contro la “propaganda gay”, che tante critiche ha suscitato nella comunità internazionale. «Sappiamo che c'è un crescente numero di persone nel mondo, che sostiene la nostra posizione sulla necessità di difendere i valori tradizionali, che hanno costituito le fondamenta di ogni nazione civilizzata per millenni», ha detto parlando davanti alle Camere unite del Parlamento e a numerosi invitati come il patriarca di Mosca, Kirill. «Oggi molti Paesi stanno rivedendo le loro norme morali ed etiche, cancellando le loro tradizioni nazionali e le differenze tra nazioni e culture», ha proseguito. Una critica diretta non più solo agli Usa, ma anche all'Europa, dove vengono legalizzati i matrimoni omosessuali, e più in generale a quei Paesi dove alla società si richiede di riconoscere non solo «l'equivalenza delle diverse opinioni e idee politiche», ma anche «il riconoscimento dell'equivalenza del bene e del male». «La distruzione dei valori razionali dall'alto – ha avvertito – è fondamentalmente antidemocratica, perché basata su una nozione astratta e va contro la volontà della maggioranza delle persone». La Russia, invece, «ha un punto di vista conservatore», ma il conservatorismo ha per scopo di impedire il movimento «verso il basso, nel caos delle tenebre», ha spiegato Putin, citando il filosofo ortodosso Nikolai Berdiaev.
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