Cultura

Que viva Kapuscinski!

Uno dei più grandi giornalisti viventi torna con un libro travolgente dedicato ai suoi viaggi in Africa. E con la prima raccolta dei suoi reportage fotografici.

di Giuseppe Frangi

«Seduto a una scrivania sento avvicinarsi la fine, mi sento morire». «Voglio vedere, controllare tutto di persona». In queste due ammissioni, raccolte in punti sparsi del suo ultimo magnifico libro, c?è tutta l?originalità e la grandezza di Ryszard Kapuscinski. Un libro che non è propriamente l?ultimo, perché in Polonia La prima guerra del football uscì nel 1978. Tuttavia letto oggi, con 24 anni di ritardo, non ha perso un grammo della sua freschezza. è un libro senza ordine e senza confini; un libro pazzo che programmaticamente scappa dall?idea di darsi una forma chiusa. Ogni capitolo è una finestra aperta su un capitolo di storia. Ma è un capitolo aperto a caso, d?improvviso in cui ci troviamo catapultati senza spiegazioni e senza protezioni, con la brutalità che segna la vita degli inviati veri, quelli che «vogliono vedere di persona».
Kapuscinski partì per l?Africa nel 1958, giovane giornalista inquieto. Arrivò in un continente di cui si sapeva poco e si capiva ancora meno. Un continente «la cui storia per secoli è rimasta anonima. Nello spazio di 300 anni i mercanti hanno deportato milioni di schiavi: chi può fare il nome di una sola vittima? Dal passato africano non emerge un solo nome che il mondo conosca, che l?Africa stessa conosca?».
Kapuscinski arriva e non cerca garanzie, né protezioni per poter svolgere la propria attività di giornalista. Ama immergersi nelle situazioni accettando i rischi che questo può comportare: e il libro, in questo senso è anche un libro d?avventure, tante e tali sono le situazioni drammatiche e romanzesche che l?autore si trova ad affrontare. I compagni comunisti in patria hanno un bel richiamarlo all?ordine. Lui si muove libero da ogni schematismo ideologico. Quando dal ministero degli Esteri polacco gli dicono che non può andarsene in giro per il mondo, con spirito anarchico, senza «capire i processi marxisti-leninisti che avvengono nel mondo», lui secco risponde: «E allora andate voi a vedere. Vi auguro di tornare vivi».
Quando le sue previsioni poco ortodosse sul destino del Congo e sulla vittoria di Mubutu si realizzarono, l?Agenzia polacca gli propose di trasferirsi per qualche anno in Africa. Così dal 1962 Kapuscinski divenne il primo corrispondente da quel continente. Naturalmente senza ufficio e senza scrivania.
Ghana, Kenia, Congo, Mozambico, Sudafrica, Algeria: ovunque qualcosa di nuovo e d?imporante stesse per accadere, Kapuscinski riusciva sempre a farsi trovare pronto. Nel senso che arrivava di persona, mischiandosi tra la folla, guardando da vicino con i suoi occhi, liberi da ogni schema, i protagonisti. Per capire come gira il vento della storia, gli bastano i particolari. Nulla è più distante da lui della saccenteria del grande analista occidentale che pretende di capire tutto sulla base di dati freddi. Stupende le pagine che accompagnano l?ascesa e la caduta di Lumumba, il leader che, all?inizio degli anni 60, accese di speranza il Congo. «Eccolo: alto, elastico, si asciuga la fronte con la mano dalle lunghe dita nervose. Ha un viso che qui piace, perché è scuro ma ha i tratti europei. Patrice gira per le strade di Léopoldville. Si ferma, si volta, prosegue. è solo, compone mentalmente il suo grande monologo». E poi: «Lumumba è sempre di un?eleganza raffinata. La camicia di un bianco abbagliante, il colletto rigido, i polsini con i gemelli, la cravatta annodata alla moda, gli occhiali dalla montatura costosa».
Kapuscinski non ha bisogno dei discorsi per capire gli uomini. Li capisce analizzandoli nei particolari, come accade, per esempio, nelle straordinarie pagine dedicate ad un?altra ascesa e caduta: quella del leader algerino Ben Bella.
Ma oltre ai leader, in queste pagine, c?è un?altra protagonista, anonima ma decisiva: la gente. Il giornalista si mischia, ascolta, fotografa i volti con il proprio sguardo. Si lascia portare dall?onda: «Bisognerebbe vedere la folla che va ai comizi: solenne, compresa, gli occhi febbrili. è bene mescolarsi alla folla, applaudire, ridere, e arrabbiarsi con lei, sentire la sua pazienza e la sua forza, la sua dedizione e la sua minacciosità».
Non ha ricette Kapuscinski, che guarda esterrefatto al consumarsi di drammi epocali, quasi ammutolito. Descrive le difficoltà spaventose che un leader incontra in un continente come questo, dove le giornate trascorrono sulle sabbie mobili, e dove non ci sono punti fermi: «Tutto sbarra loro la strada: l?arretratezza secolare, l?economia primitiva, l?analfabetismo, il fanatismo religioso, la cecità tribale, la fame cronica, il passato coloniale con la sua politica di tenere i vinti nell?oppressione e nell?ignoranza, il ricatto degli imperialisti, l?avidità dei corrotti, la disoccupazione, i bilanci passivi». Così, scrive Kapuscinski, l?unica via di uscita è la dittatura. L?essenza del dramma consiste nella resistenza tremenda della materia («L?odio tribale, questa mostruosa e diabolica ossessione africana, è stato rifornito di armi automatiche») al lavorio di chi vorrebbe apportare mutamenti. Conclude Kapuscinski: «Chi vuole capire l?Africa dovrebbe leggere Shakespeare. Nelle tragedie politiche di Shakespeare tutti muoiono, i troni grondano sangue e il popolo contempla muto e atterrito il grande spettacolo della morte». Ma poi questo continente bello e tremendo, cattura con il suo fascino portentoso: «Io non saprei descrivere la notte del Sahara. Nel Sahara le stelle sono immense. Stelle così non esistono da nessun?altra parte del mondo. Dondolano sopra la sabbia come enormi lampadari. La loro luce è verde. Di notte il Sahara è verde come un prato della Masuria».
E sono magnifici anche gli uomini di quel continente. Come i nomadi dell?Ogaden, in Etiopia, con i quali Kapuscinski viaggia nel 1976. «Avanza eretto, magro, alto, canticchiando versetti del Corano», scrive il giornalista. Che poi annota sul suo taccuino la naturale stranezza di questi uomini, le cui aspirazioni vanno in direzione opposta agli ideali e alle ambizioni di chi abita il mondo industrializzato: «Noi attraversiamo la vita accumulando beni. Il somalo butta via tutto cammin facendo». Invocazione e metafora di un mondo più leggero e sostenibile.

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