Welfare
Quasi dimezzato il lavoro in carcere
Nell'anno della pandemia i detenuti impiegati da aziende esterne all'amministrazione penitenziaria sono passati da circa 2mila a 1.200. Un crollo del 40% che avrà gravi ripercussioni sui tassi di recidiva. Come spieghiamo in questa inchiesta
di Luca Cereda
«In carcere non c’è solo l’articolo 27: certo, c’è quello che parla del compito rieducativo della pena in carcere, ma all’interno dei penitenziari vigono tutti gli articoli della Costituzione. Compreso il primo, per cui l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro», spiega Nicola Boscoletto, presidente e fondatore della cooperativa sociale Giotto che opera nel carcere di Padova. Ma il lavoro sembra non trovare terreno fertile dietro le sbarre, soprattutto al tempo del Covid.
Questo nonostante il lavoro rappresenti uno dei pilastri della rieducazione dei condannati, e anche un investimento sulla sicurezza fuori dalle mura dei penitenziari. Infatti, stando ai numeri raccolti dall’inchiesta di VITA sul lavoro in carcere, la pandemia ha dimezzato i detenuti che lavorano dentro o fuori dagli istituti di pena.
Carcere e lavoro: diamo i numeri
Nicola Boscoletto è uno che la materia del lavoro in carcere la conosce bene e ci invita a consultare la relazione al Parlamento sul lavoro in carcere presentata a metà 2020: al 31 dicembre 2019 su 60.769 detenuti presenti nelle carceri del Belpaese, lavoravano in 18.070, cioè il 29,7 per cento. Di questi quasi 2.500 erano sotto contratto con aziende e cooperative per lavorare dietro le sbarre o fuori, se in regime di semilibertà o in articolo 21 del codice penitenziari. Nonostante la pandemia, i dati riferiti all’anno 2020 e presenti nella relazione presentata qualche settimana fa indicano un aumento del numero di detenuti impiegati alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. E i numeri sono impressionanti, perché a fonte di un calo di quasi 8mila persone in carcere nell’anno dell’inizio della pandemia, sarebbero comunque 17mila i detenuti impegnati in attività lavorative nel 2020, pari a quasi il 32% dei presenti negli istituti di pena. Di questi solo 2mila però sono gli assunti con contratto regolare da imprese e cooperative sociali. Per questo tipo di detenuti ci sarebbe stato comunque un calo – di circa un quinto – anche stando ai numeri della relazione al Parlamento.
Per comprendere meglio questi numeri c’è da aggiungere un ulteriore elemento: di quei 2mila detenuti, sono poco più di 800 quelli in semilibertà o in articolo 21 che quindi lavoravano fuori dai cancelli degli istituti di pena. Ma chi di loro ha davvero continuato a lavorare con la pandemia? Sulla base dell’incrocio tra le cifre fornite a VITA dal Dap (il dipartimento di amministrazione penitenziaria), con i dati del Ministero della Giustizia e le stime di Nicola Boscoletto, il numero reale di detenuti alle dipendenze di datori che non fossero l’amministrazione penitenziari tra il 2020 e il 2021 sono: 400 detenuti attivi lavorativamente durante la pandemia in carcere anziché quasi 700, mentre dei quasi 1.300 detenuti che lavoravano pre-pandemia regolarmente all’esterno del carcere, sono rimasti operativi tra gli 800 e i 900 detenuti. A fronte di questa situazione – a dispetto del rapporto presentato in Parlamento – si può parlare di quasi un dimezzamento dei detenuti-lavoratori durante la pandemia.
I numeri reali dei detenuti che lavorano sono molto diversi
«C’è di più, c’è un “lato oscuro” che riguarda i numeri dei quei rapporti, e lo conosce bene chi vive il carcere e chi in carcere dà lavoro: quei 16-17mila detenuti segnalati come impegnati, non lavorano, svolgono attività alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. Attività di addetti alle pulizie, alla lavanderia e alla cucina, cuochi e manutentori. Ma nessuna agenzia di pulizie e nessuna cucina assumerebbe questi detenuti che in cambio di qualche centinaia di euro all’anno svolgono queste mansioni, delle vere e proprie ‘corvèe’ delle carceri. In questo modo viene data loro, in cambio di qualche ora di servizio una “paghetta” per le sigarette e per tenere impegnati i detenuti, non per rieducare condannati e formare cittadini che usciti non dovranno tornare a delinquere per sopravvivere, ma cercarsi un lavoro», spiega in Nicola Boscoletto.
Quanto ha inciso la pandemia su questo sistema
La pandemia ha fatto tornare non solo il “mondo del lavoro” del carcere, ma il sistema-carcere per interno indietro di anni: queste persone sono state confinate in cella o con al massimo la libertà di girare nel “braccio” in cui sono detenute, senza le attività formative, educative, senza incontri con i parenti o con i volontari e senza lavoro. «Molte delle filiere lavorative delle cooperative o delle aziende in carcere si sono interrotte, e solo alcune sono riuscite a convertire la produzione in attività essenziali. Di conseguenza, essendo pochi anche all’esterno del carcere i lavori essenziali che i detenuti in regime di semilibertà o in articolo 21 hanno continuato a svolgere, molti di loro si sono trovati in cella tutto il giorno, quando erano abituati a lavorare 8 ore».
L’unica “nota lieta”, ammette con un sospiro Boscoletto, è che con l’avvento della pandemia, le persone in semilibertà o articolo 21 che continuavano a lavorare sono state messe in licenza prolungata sulla base dell’articolo 124 del 17 marzo 2020 – contenuto nel decreto Cura Italia – così che non entrassero in carcere la sera portando eventualmente il contagio. Alcuni di loro sono riusciti a vivere nella propria abitazione, altri hanno dovuto scegliere di state in una casa accoglienza o un alloggio concordato con il giudice di garanzia. Questa licenza è concessa, salvo proroghe che non sono in vista, fino al 30 giugno 2020, salvo che il magistrato di sorveglianza decida altrimenti.
La geografia del lavoro in carcere ci dice qualcosa sul non-funzionamento del sistema
Per “tirare le somme” sul lavoro dei detenuti, si può parlare di solo un 4 per cento dei reclusi che in carcere fa un lavoro vero, con una formazione pregressa, un contratto e un vero e proprio stipendio. Se la percentuale è di per sé miserrima per un sistema penitenziario che affonda le radici nell’articolo 27, per cui la pena non è un modo per ‘stoccare’ il reo, ma un percorso rieducativo, il dato ancora peggiore arriva dalla disposizione geografica di quel 4% di detenuti che lavorano: «Sono quasi tutti nelle carceri milanesi, a Padova, a Torino o a Roma, con pochissime altre eccezioni», illustra il presidente e fondatore della cooperativa Giotto che lavora in carcere a Padova dal 1986. Questo racconta un sistema complessivo che non funziona e tiene il lavoro lontano dalla maggior parte dei detenuti.
Al tempo del Covid-19 la situazione si è ulteriormente complicata: infatti non solo le carceri hanno interrotto le visite coi parenti e i volontari non sono più entrati, ma anche la maggior parte delle attività lavorative dei detenuti si sono fermate. «Far svolgere qualche mansione interna e utile al cercare è un modo per tenere calmi i detenuti, per dare uno scopo, perché con quei lavoretti si racimolano i soldi con cui comprarsi il cibo o le sigarette. Il lavoro, quello vero, è quello con la formazione e lo stipendio, quello che può migliorare le condizioni delle carceri, ma non sembra interessare alla politica», spiega Boscoletto.
La recidiva in Italia è altissima: quella reale, ancora di più
Sul tema del lavoro in carcere c’è un silenzio assordante. E per Nicola Boscoletto è chiaro il motivo: «Per la politica – sia di quella “centrale”, romana, che di quella che lavora specificatamente con gli istituti di pena – non è un argomento che paga. Così dal carcere le persone escono peggiori di come sono arrivate. Questo è un fallimento e non si può far finta di niente. Il carcere oggi è come un hotel al contrario: in albergo per far tornare il cliente lo tratti bene, in carcere per farli tornare, li tratti male. È questo che si fa nei nostri penitenziari».
Il carcere, intenso come sistema e per come funziona, è un costante ostacolo al suo stesso progetto di rieducazione dei condannati, lo si è visto anche nel modo – non solo alla prim’ora, ma soprattutto nei mesi successivi – in cui ha tenuto fuori i volontari.
È a questo punto, e fatta questa ampia analisi, che occorre parlare della recidiva: «La recidiva nei detenuti che escono dalla carceri italiane sia del 70%, altissima – evidenzia Boscoletto -, ma la recidiva reale è intorno al 90%. Questo perché se del 79% dei reati italiani non viene trovato il colpevole, quest’ultimo raramente è uno “nuovo”, più probabilmente è qualcuno che ha già commesso un reato, rilasciato dal carcere che non ha saputo rieducarlo. In definitiva dai penitenziari solo 1 su 10 esce rieducato. È come se solo 1 ponte su 10 restasse in piedi al passaggio delle auto, e nove crollassero. Una tragedia disumana. Solo che quella dei ponti fa più rumore di quella che si consuma in carcere». E a risentirne è la sicurezza di tutti. Sia quando cadono i ponti, sia quando un ex detenuto delinque e rientra in carcere. Tutto questo pesa sulle casse del sistema-Paese: «Riducendo anche solo dell’1 per cento la recidiva, si risparmierebbero un mucchio di soldi dello Stato, dei cittadini, perché a ogni punto corrisponde un costo di circa 40 milioni di euro di spesa pubblica che sarebbe risparmiato, ma il covid ha addirittura peggiorato una situazione desolante anche prima della pandemia», specifica Boscoletto.
La burocrazia rende la vita delle imprese e delle cooperative in carcere, impossibile
Il carcere Due Palazzi di Padova, dove lavora la cooperativa di Nicola Boscoletto, è una delle strutture più all’avanguardia per il lavoro. Qui i detenuti rispondono come call center delle Asl della zona, rispondono per le società di luce e gas, e per le Camere di Commercio. E ancora, i detenuti della cooperativa Giotto producono tacchi per l’alta moda e assemblano valigie per la nota azienda Roncato. In questo periodo di pandemia alcuni hanno riconvertito l’attività creando mascherine certificate. Pe non parlare della pasticceria Giotto: «Qui non facciamo assistenzialismo, ma portiamo avanti attività che sappiamo stare sul mercato», spiega Boscoletto. «Se prima si fa formazione con un tirocinio pagato, poi le persone vengono assunte con il contratto, così si reinseriscono nella società, devono essere allenate per farlo. E quando al detenuto offri il bene, lui in qualche modo lo coglie». Ma la vita degli imprenditori dietro le sbarre però è resa quasi impossibile da infiniti ostacoli di carattere burocratico. «Le imprese, proprio come i detenuti e gli stessi volontari penitenziari, devono fare una ‘domandina’ all’amministrazione penitenziaria per ogni cosa che fanno, e questo uccide il lavoro in carcere, perché cercano di adattare i tempi del carcere al mercato del lavoro, non viceversa». I controlli sono necessari, ma è chiaro anche a chi imprenditore non è, che in questo contesto, impostare il lavoro, spostare una filiera o una linea produttiva in carcere è molto difficile e c’è di più: «Basti pensare che la giornata carceraria finisce alle 15.30, dopo quell’ora non si possono fare attività: un imprenditore che investe non può sottostare a questo tipo di logica».
Il mondo del lavoro, usciti dal carcere: quali prospettive?
Intanto, i detenuti in semilibertà o in articolo 21 potranno restare fuori fino a luglio 2021. Ma chi esce dal carcere oggi? Il mondo del lavoro con la pandemia per i detenuti è e sarà ancora più problematico. «Tutti gli operatori in campo dovrebbero adoperarsi per programmare e cercare di leggere la situazione per aiutare il reinserimento dei detenuti, ma questo non è quello che sta accadendo», conclude Boscoletto.
Chi esce dal carcere vive una vera e propria “lotta tra poveri” e “nuovi poveri” per l’accesso al mondo del lavoro, con il rischio – concreto – che il carcere diventi sempre più una discarica sociale per chi “perde” quella sfida. È fondamentale quindi che ai detenuti sia data oggi anche la possibilità di formarsi all’utilizzo delle tecnologie, e che essere siano applicate al lavoro, non fini a des stesse, altrimenti diventano un passatempo o un modo per ammazzare il tempo dietro le sbarre: perché se escono “analfabeti tecnologici”, i detenuti hanno chiusa – a doppia mandata – ogni porta nel mondo del lavoro.
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