Lamin viene dal Senegal, da dieci anni non rivede il suo paese. E racconta, aprendo uno squarcio di luce in una caotica mattina milanese, una vita fatta di ritmi e valori diversi. Che trasformano una semplice colazione in un incontro specialeFatichiamo a prenderci, teniamo occhi insaponati, luoghi e volti scivolano via dagli sguardi e non ci resta che la schiuma del detersivo da contemplare. Una miscela di solventi buona allo svenimento su due piedi.
Camminiamo dritti, la cuccagna delle vertebre che gareggia con gli alberi, chissà che non si riesca per primi a toccare il cielo. Ma la coscienza sta buttata all’indietro, piegata all’ammoniaca del vuoto, venuta meno al vicino che ogni giorno incontriamo sul pianerottolo di casa, al barista che la mattina ci prepara il solito espresso, al giornalaio che ci conserva da parte una copia del quotidiano, alla città che anche oggi si fa trovare sveglia, sgranchita nelle strade, pronta a reggerci i passi con i muscoli allenati della terra.
Ci manca l’allerta dei corpi, il trillo che scatta da nervo a nervo, quando l’uomo incontra l’uomo. Ci manca la spallata volontaria, l’allarme suonato da due ossa contro, uno schiaffo di note che ci rinvenga.
A tu per tu con le stelle
Basterebbe anche il volume basso di una mano stretta attorno al braccio, come questa di Lamin, che nel saluto mette carne, muove forza, e aiuta la ripresa dei sensi. Viene dal Senegal, si è staccato dieci anni fa dalla sua terra, ma i brandelli d’Africa li conserva addosso, ricuciti con cura sopra le pelle. Perché il luogo che ci ha messi al mondo va attraccato al corpo, legato alle corde delle vene, così se anche salpiamo lontano lui resta qui, fermo al porto fisso che noi siamo.
Nel dire questo Lamin mi mostra un serpente tatuato attorno al polso, è il Mambo, un colosso che inghiotte vive le sue prede, capace di tenersi una mucca intera dentro, con tutti i suoi litri di latte e la sua scorta di madre mai più munta.
C’è una storia, legata al Mambo, che Lamin mi racconterà più tardi, dopo il caffè che adesso ci sta davanti. Metto il mio cucchiaio di zucchero nella tazza, mescolo svelta, l’abitudine di due soli sorsi a finire tutto. Lui è appena allo strappo dello zucchero che versa piano, gira lento. Come se dietro ogni singolo grano ci fosse la fatica di un lavoro, un sudore sgocciolato e sciolto, a fare dolce l’amaro.
Perché nel suo villaggio il guadagno di un piacere costa tempo, vuole dedizione di schiena piegata e fedeltà di muscolo all’opera. Il caffè, per esempio, è rituale da insonnia, se lo si vuole bere non ci si può permettere l’occhio svenuto e la vista mancata, tocca pigliarsi una scodellata di stelle in faccia, e stare compagni svegli della luna.
Come fa la madre di Lamin, che alle tre di mattina esce in cortile, il suo corpo di cioccolata densa confuso alla notte, impasto unico con il cielo, a cominciare la tostatura dei chicchi. Fuoco acceso, una padella, e quella donna indaffarata d’amore, troppo piena di famiglia per sgomberare il cuore e rimanere sfitta. In lei non c’è posto per il vuoto, tutti gli spazi occupati da marito, figli, parenti, vicini, l’intero popolo privato che da lì a qualche ora si spartirà l’alba nel sorso comune del caffè.
Racconta Lamin, e intanto beve, manda giù un buono di madre, un gusto di tazze passate di mano in mano, un sapore di “buongiorno” uscito a catena dalle bocche, e stretto forte al gancio del primo sole.
Il cameriere passa, mi porta via la tazza. Ho consumato in fretta, ubbidiente al comando di un sistema che sbuffa l’impazienza delle ciminiere, la frenesia dell’industria che produce e corre, attrito di soldo al suolo, a bruciare le impronte di un padre, una madre, un figlio. E non c’è più Domenica, con la sua passeggiata a tre.
L’assalto del Mambo
Invece per Lamin è tutto “Uno che fa gita”, “Uno che fa festa”, quando parla del suo villaggio spalancato, con le case lasciate aperte, pietra e fango a braccia tese, pronte a ricevere l’improvvisata del vicino che è rimasto senza riso per la cena, l’amico che vuole acqua perché giù al pozzo c’è la fila, e a mettersi in coda si fa tardi, e con il lavoro non si rischia, che la fame non è uno scherzo.
Lo ascolto, lui che ha ancora la sua tazza davanti, e qualche sorso da gustare. Lo ascolto, io che non ho più niente da mandare giù, e m’invento la boccata di fumo a ingannare il vuoto in gola.
Arriva il momento del Mambo ora, Lamin prende a raccontare la storia del serpente tatuato a bracciale attorno al polso. Gli fa il verso mentre dice, ripete la sua spirale col giro del cucchiaio nell’ultimo dito di caffè rimasto. Quello era minaccia per il villaggio, toglieva razione di latte e carne nell’assalto alle greggi, faceva sparire mucche e pecore con la furia di stretta e risucchio. Lungo oltre cinque metri, bastava ad annodare all’incubo il sonno di tutti i pastori. L’unica maniera di sciogliere i lacci e districarsi dallo spavento, era dargli la caccia. Ci andavano i ragazzini, a sfidare quel gigante tutto pieno di tornanti, giovani svelti a comprendere che la vita è un’addizione di curve, e se non s’impara a prenderle nel verso giusto, alla fine si sbaglia il conto.
A noi, figli d’Occidente, che pretendiamo cifra esatta con la somma di linee rette, farebbe bene un corpo a corpo con la geometria del Mambo. Noi, che nel bastone dritto della nostra spina dorsale vediamo ruota di pavone, pazzi di verticale noi, picchiati in testa per la smania di salire, fare accumulo, fare vetta, fare cielo. Fare Dio, noi.
Dovremmo apprendere dal Mambo, essergli alunni dietro al banco di scuola, mettere a memoria la lezione di quel suo cordone vivo che parte rasoterra e s’arrampica all’estremo ultimo dell’albero maggiore. Lui mangia per andare su, brucia caloria di pecora e mucca per guadagnarsi l’alto della fronda finale. Sale, sale, di torsione in torsione ascende. Ma sa che il regno dei cieli non sta in cima. E una volta arrivato, si lascia cadere. Perché è nel tonfo a terra, che si trova Dio.
La felicità che cade
Lamin l’ha capito in fretta, che per raggiungere la felicità bisogna invertire la rotta, lasciare da parte la statura del cielo e inseguire il basso della terra, dove il piede dell’uomo calza la scarpa di Dio e con lui marcia. Per il lungo e il largo di tutto il reale.
L’ha capito subito, Lamin. Quando da bambino conobbe il suono dell’estasi nello schianto di un Mambo crollato al suolo, buttato al basso come il santo che davanti alla Madonna apparsa piega le ginocchia. E tocca il cielo in terra. Mi guarda, adesso. Con l’ultimo sorso di caffè termina la sua Africa. S’interrompe il suo Senegal, nel colpo della tazza vuota sopra il piattino. Lui sorride, io ricambio. Mentre il verso finale delle Duinesi di Rilke mi scorre nella testa. E trascina in basso il mio sguardo. «E noi, che pensiamo alla felicità ascendente, / saremmo commossi / e quasi sconvolti / quando cade una cosa felice».
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.