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Quando sono le adolescenti a farsi del male

Da oltre vent’anni Antonio Piotti, docente dell'Alta Scuola di Psicoterapia del Minotauro, si occupa di giovanissimi con condotte autolesive e suicidarie. Abbiamo dialogato con lui per capire cosa rende desiderabile l’idea della morte volontaria. Oggi a preoccupare sono soprattutto le ragazze

di Sabina Pignataro

Nel 2000 il professore Gustavo Pietropolli Charmet ha creato al Minotauro di Milano un team di specialisti dedicato allo studio delle tematiche del rischio suicidale negli adolescenti (leggi l'intervista). Il professor Antonio Piotti faceva parte di quel gruppo e da allora insegna Prevenzione e trattamento delle condotte autolesive e del tentato suicidio in adolescenza presso l’Alta Scuola di Psicoterapia del Minotauro, ha incontrato lo sguardo di più di cento adolescenti tristi. Abbiamo dialogato con lui per capire cosa rende desiderabile l’idea della morte volontaria negli adolescenti di oggi.

Un’indagine promossa da Fondazione Soleterre e dall’Unità di Ricerca sul Trauma dell’Università Cattolica di Milano (dicembre 2020), il 17,3% dei giovani dai 14 ai 19 anni pensa “quasi ogni giorno” o “per più della metà dei giorni” che sarebbe meglio morire o farsi del male, a causa del dolore che la vita provoca. Dal suo osservatorio privilegiato come stanno i bambini e i ragazzi?
Le fantasie suicidali sono molto frequenti nei ragazzi: in una ricerca del 2012 organizzata da Alfio Maggiolini e da altri colleghi del Minotauro è risultato che il 40% circa dei ragazzi aveva pensato almeno una volta al suicidio. Questo dato non è di per sé preoccupante perché pensare di disporre della propria vita e anche di liberarsene fa parte, in un certo qual modo, della complessità del processo evolutivo adolescenziale. La cosa diventa più grave quando il pensiero del suicidio si articola in un progetto che comprende date, metodi, tecniche e che ne prevede gli effetti. Ancora più grave ovviamente è il passaggio all’atto, il momento nel quale si decide di provare. Oggi queste situazioni di rischio grave stanno aumentando: il pensiero del suicidio rappresenta l’apice del dolore mentale nei ragazzi, qualcosa a cui si arriva quando forti carichi di angoscia si uniscono a una estrema labilità delle difese per cui sembra di essere in un vicolo cieco.

Potremmo ricostruire un identikit dei ragazzi che vengono da lei? Cosa rende desiderabile l’idea della morte volontaria?
Schopenhauer diceva che il suicidio è una dimostrazione di attaccamento alla vita. Col tempo ho capito che aveva ragione. I ragazzi che vogliono morire non partono dal disprezzo della vita: ciò che li fa soffrire è constatare che la vita non riesce a essere come dovrebbe, che tra il loro ideale e la quotidianità triste c’è un abisso che sembra incolmabile. Hanno la sensazione di essere sconfitti e che lo saranno per sempre, oppure quella di scivolare in un buco nero senza avere nessun appiglio cui aggrapparsi. Non c’è una tipologia precisa, la sofferenza attraversa tutte le classi sociali e ogni età ma il problema è molto serio. Negli Stati Uniti nel 2017 (quindi prima del Covid) il suicidio è divenuta la prima causa di morte per i giovani.

Perché soprattutto le ragazze?
Fino a qualche tempo fa a morire per suicidio, in quasi tutto il mondo, erano soprattutto i maschi. Per ogni ragazza morta per suicidio si registravano tre o quattro ragazzi. Non ho i dati per mettere in discussione oggi questa statistica, ma la mia esperienza personale e quella dei colleghi con i quali sono in contatto in Italia mi dice che sta accadendo qualcosa alle ragazze. Sembra che la pandemia abbia agito soprattutto su di loro incrementando ulteriormente i disturbi dal comportamento alimentare, gli stati d’ansia, l’autolesionismo e, alla fine, anche l’aspirazione alla morte. Difficile immaginare la ragioni: forse l’isolamento prodotto dalla pandemia è più difficile da tollerare per le femmine che necessitano in adolescenza di un continuo contatto, ma la cosa andrà studiata meglio.

Lei ha studiato per anni il ritiro sociale nei ragazzi in crisi, quello di chi ha deciso di sottrarsi allo sguardo di tutti e di rifugiarsi nella sua cameretta in compagnia dei videogiochi e di amici virtuali. Come commenterebbe oggi queste problematiche? C’è qualcosa di diverso rispetto al passato?
Paradossalmente, o forse nemmeno tanto, i ritirati sociali sembrano aver avuto un certo miglioramento almeno nella prima fase della pandemia. È una constatazione che condivido con molti colleghi in Italia e in Francia. Forse il fatto che fossimo tutti reclusi li faceva sentire meno a disagio; l’obbligo di mantenere le distanze o di usare la mascherina riducendo il contatto sociale, evitava di metterli alla prova. Per un certo periodo abbiamo sperato che questi miglioramenti potessero avere una certa stabilità, oggi sembra proprio che non sia così e che la ripresa dei contatti abbia di nuovo isolato questi ragazzi e che, anzi, molti altri giovani che prima accettavano a fatica la normalità degli incontri, oggi stiano pensando di rinchiudersi nelle loro stanze e di limitare la vita sociale alla Rete.

Molti esperti convengono sul fatto cha la pandemia abbia amplificato un disagio psicosociale che era già presente nei giovani. Lei è d’accordo?
Sono assolutamente d’accordo. Il Covid è stato come accendere un fanale che illuminasse i contorni di una crisi fino ad allora maldestramente mascherata. Crisi della cultura narcisistica, crisi dei sistemi familiari che hanno perso identità, crisi di significato e di esperienze formative educative e scolastiche. Ragazzi lasciati a loro stessi nelle mani di una cultura edonistica e utilitaristica. Quando le difese, per altro labili, sono venute meno a seguito della pandemia, il baratro si è spalancato sotto i piedi di molti ragazzi che hanno cominciato a precipitare. Non tutti ovviamente, non la maggioranza di loro, ma un numero piuttosto significativo

Secondo lei quali sono le cause del loro malessere?
Viviamo in una cultura della prestazione e del successo che non ammette l’esperienza del fallimento, del limite, della dipendenza dall’altro. Molti ragazzi sono stati posti in una condizione pseudo evolutiva fatta di autonomia solo formale, di solitudine e di assenza di senso senza che fossero state poste le basi reali per una crescita. Fino a quando le cose vanno bene si può anche mentire a se stessi, quando comincia la crisi, la maschera narcisistica cade e regge solo chi ha le strutture di personalità adatte a farlo. Gli altri cedono.

Parliamo ora di scuola. Quanto c’entra la scuola e la DAD in questo malessere?
Per chi ha a che fare con questi ragazzi tutti i giorni è avvilente assistere ai dibattiti sulla DAD, come se fosse lei la responsabile del malessere dei ragazzi e non la pandemia o, meglio ancora, il vuoto educativo, morale e prima ancora affettivo sul quale si è abbattuta la pandemia: se non ci fosse stata la DAD le cose sarebbero andate molto peggio. La didattica a distanza poteva essere uno strumento nuovo in grado forse di cambiare il modo di fare scuola e persino, di programmare e concepire la formazione dei giovani nel nostro Paese; l’unica vera brutale innovazione in un panorama educativo che è diventato una palude. La DAD avrebbe potuto essere un modo per facilitare il contatto educativo fra scuola e famiglia, per liberare i ragazzi dall’ossessione dell’orario scolastico, per permettere loro di vivere esperienze educative e formative in ambiti diversi da quello scolastico. Si sarebbero potute organizzare straordinarie occasioni formative e culturali grazie alle quali, si sarebbe forse riusciti a ridurre le disuguaglianze sociali che la scuola gentiliana, continua a perpetrare. Invece no. Una demonizzazione strumentale dettata, credo, da ragioni di mera razionalità economica unita a una pessima gestione ci ha fatto perdere questa occasione.

Di fronte ad un adolescente che si getta dal quarto piano nel tentativo di morire, come occorre comportarsi? Come e chi può aiutarlo a ritrovare la speranza?
Nella mia vita e nella mia carriera mi è capitato solo una volta di incontrare una ragazza, che si era buttata dal quarto piano ed era sopravvissuta senza gravi danni. La collega Roberta Invernizzi ne ha parlato insieme a me in un libro che si intitola Riscrivere la speranza. È stato un lavoro lungo, estremamente delicato e coinvolgente. Il punto di partenza è capire che la voglia di morire non è mai assoluta, che è sempre in lotta con una formidabile spinta alla vita. Talvolta anche solo un ascolto attento, una vicinanza non banale possono bastare per dare a questi giovani la sensazione di non essere soli e di non essere inutili. Abbiamo in realtà bisogno tutti di loro e non possiamo accettare che ci abbandonino.

In apertura, foto di Kseniya Lapteva by Unsplash

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