Non profit

Quando pago i miei lavoratori-detenuti offro anche un pezzetto di futuro

Giuseppe Ongaro

di Francesco Elli

Per 18 anni ha fatto il “tagliatore di teste”, ma a un certo punto ha deciso di dire basta. E a Verona ha creato, assieme a un socio, un’azienda per dare un lavoro vero alle persone rinchiuse in carcere, insegnando loro un mestiere per ricominciare veramente, affrancandosi dalla malavitaIl rischio, nel raccontare la storia di Giuseppe Ongaro, è soffermarsi a rimarcare la differenza tra il “prima” e il “poi”, attirati dal fascino di una vita che è passata da quella, molto ben retribuita, di “tagliatore di teste”, ovvero di chi di mestiere ridimensiona aziende e personale, a una quotidianità spesa, per scelta, all’interno di un carcere per 1.500 euro al mese. Rischio perché, abbagliati dalla forza della “conversione”, si potrebbe finire per considerare tutto il resto un corollario, quando invece è proprio il presente che Ongaro si è, letteralmente, inventato e continua a inventarsi, ad essere straordinario di per sé. Il presente si chiama Lavoro&Futuro srl, ed è la società che il 54enne veronese Ongaro ha fondato insieme al socio Edgardo Somma all’interno della casa circondariale di Verona, ormai cinque anni fa, e che dà un lavoro, vero, a circa 70 detenuti: «Il cammino non è stato semplice», racconta. «Ci sono voluti circa 14 mesi di carte bollate, permessi e richieste e poi, finalmente, il progetto ha preso il via. Ma dovrò sempre ringraziare il precedente direttore del carcere, Salvatore Erminio, e il suo successore, Antonio Fullone, perché senza la loro sensibilità e disponibilità non avrei mai potuto iniziare».
Invece l’avventura non solo è iniziata, ma procede anche molto bene: «Il fatturato 2010 è stato di circa 400mila euro. Abbiamo 74 dipendenti, tutti regolarmente assunti, e la voglia di arrivare a 100. L’azienda si occupa di diverse cose: dalla costruzione di box per cavalli alla produzione di articoli pubblicitari di vario genere; fiore all’occhiello è la produzione di portabiciclette, così come i 300 mq medi al giorno di composizione manuale di mattonelle a mosaico che ci pongono al vertice della produzione in Italia. I dipendenti lavorano sei ore al giorno, visite e colloqui con gli avvocati compresi, e, seguendo l’ottima legge Smuraglia, percepiscono dai 350 ai 550 euro netti al mese». Ma più che il valore monetario in sé, lo stipendio è fondamentale per il circolo virtuoso che innesca: «Da un lato», spiega Ongaro, «anche a casa possono vedere che qualche soldo arriva e questo fa sì che il detenuto non venga abbandonato dalla famiglia, come spesso altrimenti capita. Dall’altro lato va detto che un detenuto, comunque, ha bisogno di soldi e, per averli, l’unica “banca” che concede prestiti è la malavita. Che, però, appena si esce di prigione, si rifà viva per riscuotere il debito». Se il debito non esiste, quindi, si capisce che la possibilità di iniziare un’altra vita, veramente libera, è più concreto. E lo è a maggior ragione se, ad aspettare l’uscita di prigione, c’è anche un’azienda pronta ad assumerti. «Proprio per cercare di dare un lavoro a chi ha finito di scontare la pena», sottolinea Ongaro, «abbiamo creato la cooperativa Segni. Per fortuna, però, già diverse volte è capitato che le aziende per cui lavoriamo come Lavoro&Futuro abbiano assunto i nostri stessi dipendenti, trovando più conveniente prendere chi ha già imparato a fare un determinato lavoro, a volte molto specifico, piuttosto che formare un’altra persona».
Le parole di Ongaro sono sempre misurate, ma l’entusiasmo traspare e lascia intravedere quasi una smania di voler fare di più, come dimostrano, tra l’altro, i concreti passi fatti in vista di una possibile partenza di progetti analoghi a Trento, Castelfranco Emilia e Vicenza. Se dal presente da cui si è partiti, dunque, lo sguardo è proiettato al futuro, per completare il racconto di questa avventura umana, personale e sociale è necessario, ora sì, ripassare un attimo anche il passato, per capire come tutto abbia avuto inizio. «Mi sono laureato in Statistica», racconta Ongaro, «e sono entrato nel ramo delle ristrutturazioni delle aziende: un lavoro molto ben pagato che ha, tra le sue caratteristiche, anche quella di dover lasciare a casa molti dipendenti. Ne assumevo anche, questo va detto, e soprattutto cercavo di ricollocare chi aveva perso il lavoro».
La svolta, però, dopo 18 anni di questa vita, è arrivata. E non ha lasciato spazio a ripensamenti: «C’è sempre un momento in cui uno si guarda allo specchio. Io, circa otto anni fa, mi sono reso conto che i tempi erano cambiati e che l’unico riferimento era diventato il profitto. A quel punto, essendomi sempre piaciuto il lato sociale del mio lavoro, ho voluto che quello, e solo quello, diventasse il “mio” mestiere, in tutto e per tutto». In fondo, cosa ci vuole? Basta lasciarsi alle spalle aerei, viaggi, manager, una villa e uno stipendio da favola, per le mura di un carcere, un lavoro sempre da reinventarsi giorno dopo giorno e un appartamento di 80 metri quadrati in condominio. Condendo il tutto con la riconoscenza di tante persone cui, a fine mese, si consegna una busta paga che, al di là dei soldi, contiene anche un pezzetto di possibile futuro».

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