Welfare
Quando le sbarre ti entrano nella mente
Salute in carcere: patologie cardiache e psicofarmaci
«Carcere di Opera: cardiologo rinviato a giudizio per la morte di un detenuto»: in un momento in cui c?è grande discussione nel nostro Paese sulle morti per malasanità, questa notizia non desta purtroppo grande interesse. Ma, al di là della presunta responsabilità del medico, e se la morte sia dovuta davvero a «negligenza, imprudenza, imperizia» di chi avrebbe dovuto curare il detenuto, quello che colpisce è la storia dell?ultimo periodo di vita di questa persona: era stato ricoverato d?urgenza due volte in un mese in un ospedale esterno a causa delle ripetute crisi cardiache; cinque mesi prima del decesso, era stato sottoposto a un intervento per inserire quattro bypass. E, sia chiaro, non parliamo di un feroce criminale, ma di un uomo condannato per un fallimento. Allora c?è una domanda scontata, ma che bisogna continuare a porre con insistenza a chi si occupa di salute in carcere: ma ha un senso che persone con gravi patologie cardiache stiano chiuse in carcere, cioè nel luogo dove è impossibile prestare cure tempestive; dove le condizioni di igiene sono fortemente messe in crisi dalla inevitabile promiscuità; dove pazienti, che dovrebbero vivere sereni e assolutamente protetti da stress e ansia, sono invece per forza sottoposti alla continua tensione della vita da galera?
La cura dei detenuti
Nella cura delle persone detenute, e di quelle tossicodipendenti in particolare, quello che in carcere non viene mai negato sono gli psicofarmaci. Una sorta di silenziatore al dolore, come testimonia con straordinaria efficacia la compagna di un detenuto: «Quando vado a trovarlo, viene avanti ai colloqui che sembra uno zombie, a volte fatica a camminare, non fa attività, con quella terapia in corpo non è in grado, gli stanno bloccando la sfera emozionale, lui è nervoso e bloccato dentro di sé, dice che non dorme, la sua testa è come senza pensieri, fatica a parlare, le sbarre gli sono entrate nella mente»
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