Non profit

Quando la guerra è dichiarata

Non profit I rapporti tesi tra volontari e dipendenti a volte sfociano nel conflitto. Ecco come capirne i sintomi e prevenirlo

di Silvia Nidasio

Dei rapporti tra volontari e dipendenti che lavorano insieme in un’organizzazione non profit abbiamo già parlato in una precedente occasione (vedi “Vita” n. 19 del 14 maggio). Qui ci occuperemo, in particolare, dei conflitti che possono sorgere tra le due componenti della struttura non profit e come fare, nella misura del possibile, per evitare o eliminare occasioni di incomprensioni che sfociano molte volte in conflitto aperto con grave danno per la stessa organizzazione.
All’interno del Terzo settore italiano operano, a vario titolo, volontari, dipendenti, consulenti e obiettori, cioè ragazzi che scelgono di svolgere il servizio civile. Ciascuna categoria collabora a partire da motivazioni proprie e ciò dà origine a stili particolari di partecipazione, impegno e disponibilità. Dipendenti e volontari sono le persone che concretamente consentono il perdurare dell’organizzazione perché vi lavorano con maggior costanza e dedizione. È inevitabile, però, che l’assidua collaborazione e frequentazione determini, in qualsiasi comunità o gruppo, la possibilità che si verifichino alcune più o meno gravi incomprensioni.

Attenti ai campanelli d’allarme
Quando dipendenti e volontari si trovano e lavorare insieme capita che sorgano attriti, si verifichino diverbi o veri e propri conflitti. A volte essi vengono ignorati, per quieto vivere, altre volte vengono risolti con l’uso del potere da parte della direzione, oppure vengono sedati con un compromesso che spesso lascia tutti insoddisfatti. L’ideale è arrivare alla risoluzione del conflitto, partendo da una sana discussione fra le parti in causa che porti all’identificazione del problema (magari confrontando la situazione attuale con quella ritenuta ottimale), all’esposizione di dati e opinioni circa il problema stesso, e all ‘elaborazione di soluzioni alternative. In ogni organizzazione un conflitto costruttivo può essere utile nei limiti in cui fa emergere problematiche rilevanti e le elimina, fa aumentare il coinvolgimento nell’organizzazione di coloro che vi partecipano, favorisce la comunicazione e la conoscenza tra le persone, e costituisce un’esperienza individuale utile per il futuro. Solitamente un conflitto in ambito associativo ci mette molto tempo prima di manifestarsi apertamente, ma se ne possono riscontrare i sintomi quando dipendenti e volontari parlano di “noi” e “loro”, quando i due gruppi hanno opinioni diverse circa la mission dell’ente e quella che dev’essere la sua realizzazione, quando il disaccordo viene manifestato in privato, quando non esiste cooperazione nè comunicazione diretta, quando c’è confusione o disaccordo circa i ruoli e l’assegnazione dei compiti.
Questi campanelli d’allarme possono essere rilevati casualmente vivendo all’interno dell’ente, oppure possono essere rilevati periodicamente erogando questionari a un numero uguale di dipendenti, volontari e utenti, formulando domande capaci di indagare alcuni atteggiamenti che possono essere facilmente osservati e quantificati come: con che frequenza si sente dire noi in senso positivo e “loro” in senso negativo? Con che frequenza dipendenti e volontari si ringraziano vicendevolmente? Le decisioni che riguardano i volontari sono prese senza consultarli? Il personale dedica tempo all’aggiornamento dei volontari sulle novità apportate? Quante riunioni vengono fatte al mese con i rappresentanti di entrambi i gruppi?
Da alcune ricerche effettuate su campioni di organizzazioni statunitensi emerge che le tre cause più diffuse di cattivi rapporti tra dipendenti e volontari sono: 1. lo status più elevato dei dipendenti rispetto ai volontari; 2. l’incapacità dei volontari, che si adoperano per raccogliere fondi, di vedere parte di quel denaro destinato agli stipendi per il personale qualificato; 3. il permanere di stereotipi in base ai quali i dipendenti considerano i volontari incompetenti, poco affidabili e poco presenti, e quindi rifiutano di lavorare con loro.

Una razionale divisione dei compiti
Per ovviare a questi problemi, è necessario che i compiti vengano suddivisi in modo razionale e logico,fra dipendenti e volontari perché è innegabile che alcune attività richiedono di essere seguite regolarmente, con professionalità, e possibilmente sempre dalla stessa persona (quindi da qualcuno assunto nell’ente), mentre altre possono essere espletate con tempi e modalità più flessibili da persone diverse (quindi da volontari). I membri di un’organizzazione, siano essi dipendenti o volontari, devono essere accomunati dallo stesso obiettivo (la realizzazione della mission e il bene dell’ente stesso), ed essere d’accordo sul fatto che l’unico modo per raggiungerlo è la collaborazione. Se questo si verifica i due gruppi hanno fiducia reciproca, ogni individuo si mostra disponibile a fare qualunque cosa sia necessaria per il buon esito del lavoro (anche se è un’attività diversa da quella consueta e magari meno gratificante), e le persone si aiutano vicendevolmente.
È importante che la direzione incoraggi la realizzazione di momenti d’incontro, di festeggiamento degli obiettivi raggiunti, e possibilmente anche di ideazione di strategie ed eventi futuri, cui possano e debbano partecipare sia dipendenti che volontari. Ciascun gruppo deve riconoscere, anche pubblicamente, l’apporto e la disponibilità dell’altra componente, perché questo favorisce la comunicazione e l’operatività.

Riconciliare le due anime
Spesso dall’esterno si elogiano i volontari perché agiscono gratuitamente, però si dimentica che senza qualcuno che organizzi i turni, tenga la contabilità, gestisca le relazioni esterne (solo per fare alcuni esempi) garantendo continuità all’attività dell’ente, i servizi non verrebbero erogati con regolarità ed efficacia; d’altro canto è vero che senza la presenza, l’umanità e la disponibilità dei volontari gli utenti non raggiungerebbero lo stesso grado di soddisfazione e non potrebbero essere seguiti nella stessa misura.
Bisogna ricordare, inoltre, che svolgendo certe mansioni i volontari acquisiscono esperienze e professionalità che consentono loro di trovare un impiego, anche al di fuori del settore non profit. In aggiunta a ciò si può ricordare che alcune attività svolte da un dipendente non avrebbero la stessa efficacia di quando sono svolte da un volontario: ad esempio la raccolta fondi, la legittimazione dell’organizzazione agli occhi di chi ancora non la conosce, il reclutamento di altri volontari. Per tenere conto di tutti questi vari aspetti, ci dev’essere un’attenta direzione dell’organizzazione, che sappia incentivare l’operato di tutti i lavoratori, retribuiti e no. Per far questo bisogna partire dalla valutazione delle diverse aspettative di ciascuno e principalmente occorre ricordarsi di ringraziare tutti per l’operato svolto, fare in modo che nessuno si trovi a non aver nulla da fare o a svolgere sistematicamente mansioni ripetitive (nessuno ama sprecare tempo), creare occasioni di incontro e scambio di idee ed esperienze, organizzare brevi corsi di aggiornamento e formazione (crescere individualmente è un incentivo a restare nell’ organizzazione). In sintesi, occorre ricordare che la diversità è un punto di forza per qualunque ente, perché permette di attingere a conoscenze e competenze diverse, quindi i disaccordi vanno accettati come conseguenza naturale di un’organizzazione dinamica e attiva, restando, però, sempre vigili per evitare che questi sfocino in vere e proprie dispute o che diventino la causa della perdita di preziosi elementi, siano essi dipendenti o volontari.
Silvia Nidasio

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