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Quando la filantropia si fa cultura

Le organizzazioni filantropiche sono molto spesso impegnate in campo culturale. Ne è un esempio la Fondazione Golinelli di Bologna che, attiva anche nell'educazione e nell'innovazione, prosegue la grande passione del fondatore, il cavalier Marino Golinelli, nella produzione artistica. Fino al 30 giugno la mostra "Dall'origine al destino" offre un viaggio affascinante attraverso i momenti più significativi dell’evoluzione culturale e tecnologica, dalla comparsa dell’uomo sulla Terra all’avvento dell’Ai. Nei giorni scorsi ne ha parlato il monaco benedettino Bernardo Gianni, abate di San Miniato a Firenze. Ascolta l'episodio

di Giampaolo Cerri

L’impegno per la cultura caratterizza molte fondazioni filantropiche. Certamente è uno degli assi su cui si sviluppa l’azione di Fondazione Golinelli, oltre che quelli dell’educazione e dell’innovazione.

Merito del fondatore, del cavalier Marino Golinelli appunto, che era uomo colto, un grande appassionato d’arte, un collezionista, che però ricercava sempre il piacere di condividere la bellezza che metteva assieme.

La mostra Dall’origine al destino, aperta da febbraio e fino al 30 giugno presso l’Opificio Golinelli, si inserisce in questo solco e in questo impegno.

Intorno a questo grande allestimento, curato da Andrea Zanotti (presidente della fondazione), Antonio Danieli (vicepresidente e direttore generale), Luca Ciancabilla e Simone Gheduzzi, che è «un viaggio affascinante attraverso i momenti più significativi dell’evoluzione culturale e tecnologica, dalla comparsa dell’uomo sulla Terra all’avvento dell’Intelligenza Artificiale, ponendo l’accento sulle nostre capacità di orientamento rispetto alla velocità dello sviluppo della tecnica», intorno a questo grande allestimento, dicevamo, Fondazione Golinelli propone una serie di approfondimenti.

Un momento della conferenza: da sinistra padre Gianni, Andrea Zanotti e Antonio Danieli

Conversazioni intorno all’origine e al destino

Quello dell’8 aprile scorso ha visto protagonisti padre Bernardo Gianni, in dialogo con Adriano Fabris e Zanotti, moderati dallo stesso Danieli, con il titolo: Ritornare a respirare il cielo: la necessaria utilità di una misura metafisica.

Una conferenza di alto valore culturale per un evento artistico di rilievo che esemplificano bene quanto la filantropia in Italia sia capace di interventi di grande spessore culturale.

Per un nuovo episodi de I podcast di ProdurreBene vi proponiamo un estratto di quel lungo e articolato dialogo.

Un incontro in cui l’abate Gianni – caro amico del nostro fondatore, Riccardo Bonacina – ha consegnato all’uditorio una riflessione acuta, di cui vi abbiamo trascritto la prima parte: ci sembra un ragionare davvero utile, anche per il tempo pasquale, credenti o meno che siamo.

Ascolta il podcast

Padre Bernardo Gianni: «Nessun divorzio fra Cielo e Terra»

«Grazie di cuore per questo invito. Grazie a voi che lo avete raccolto condividendo con me la gioia di essere in un posto così bello e speciale, in questo umanesimo imprenditoriale che dà davvero un tocco, molto più di un tocco, una profonda consonanza a tutto quello che ha a che fare con il vero complemento, credo, di tutto il nostro lavoro, il nostro dover dovere. Ed è il tocco e il sussulto della gratuità come liberazione del nostro cuore, che torna finalmente avere margini e possibilità di stupore, di meraviglia, di tutto quello che, direi, lo restituisce a se stesso, e restituendola a se stesso, può accorgersi che nelle strutture architettoniche tipiche di un opificio come questo ci sono dei varchi, dei varchi di luce, che consegnano anche alla ferialità e alla necessità del lavoro un margine molto importante di cielo. Immagine simbolica e nello nel senso tempo molto concreta di infinito, di eccedenza, di libertà e di riqualificazione di tutto quello che finalmente avvertiamo nel nostro cuore come incommensurabile e indisponibile a qualsiasi quantificazione.

Padre Bernardo Gianni durante un ritiro della Cei ad Ariccia (Roma) – foto Vatican Media/LaPresse

Quindi io credo che sia un movimento ampiamente condivisibile, tutt’altro che regressivo, quello che restituisce al nostro orizzonte del quotidiano la possibilità di abitare il cielo come esperienza, direi, di restituzione della nostra più autentica verità, a quanto avevamo un po’ velocemente dimenticato, trascurato.o mi sono portato una “bibliotechina” poetica con me, questo perché conoscendo la povertà del mio pensiero e della mia parola, forse facendo un po’ come un abile ricettatore, ho pensato che qualche verso potesse dire molto meglio di me e delle mie parole, quello che credo in un luogo di questo tipo possa risuonare come veramente essenziale per dare anche ispirazione a tutti noi, nella presa di coscienza che in fondo è arrivato anche un momento storico in cui, mi verrebbe quasi da dire, le conferenze non ci bastano più. E in questo, permettetemi di rivendicare uno stile di vita, quello monastico, che fa della celebrazione, e quindi di un evento performante, la manifestazione di una disciplina che, proprio attraverso l’ascolto, il rito, la ripetitività, la sensorialità, l’intelligenza, ma soprattutto il cuore, una occasione ritmicamente incalzante di consapevolezza e liberazione allo stesso tempo. E quindi, in questa prospettiva, mi piace che, dove muore e gli ci vuole veramente poco, il mio pensiero, rinasce – perché sia come una di suggestione vibrante nel cuore di tutti noi – la parola poetica. E qui mi servo di una poetessa toscana, che ho portato con me come un piccolo gioiello per dare a questa domanda anche una risposta che davvero restasse nel cuore con tutta l’intensità che soltanto il gesto sa generare nel cuore, quando si lascia, per un attimo almeno, comprimere da una mano che gli vuole bene.

Amore è questo senso d’ali, averle, aprirle, fendere con il petto un elemento ignoto finora e a un tratto divenuto la patria.
Come sono lontani il guscio e bozzolo a cui credemmo appartenere, il buio dove crescemmo e dove non faremo mai più ritorno.
Lieta o dolorosa che sia la nostra ultima sorte, ormai siamo per sempre segnati dal Cielo.

Margherita Guidacci, con questi versi, lo avrete facilmente compreso, evoca una sorta di auto-consapevolezza che due farfalle, lasciate il bozzolo, la crisalide e tutto quello che era la fase antecedente al dispiegarsi delle loro variopinte ali, ci lascia così tutti noi partecipi di un momento di straordinaria intensità, un momento in cui, effettivamente, intuiamo che il Cielo è la nostra vera patria, da fendere con il petto, quindi con questa specialissima bussola a sé stante che è il nostro cuore, le sue emozioni, le sue intuizioni, i suoi desideri. E direi anche un aspetto importante, che torna con questa parola imponente, che è contenuta nell’oggetto del nostro incontro di oggi pomeriggio, la parola Destino.

La cultura del “dover dovere”

Qui Margherita impiega la nostra ultima sorte, lieta o dolorosa che sia, perché effettivamente, alle volte, si pensa che attraversare il Cielo sia un esodo spiritualizzante, che ci metta al riparo dagli attriti dell’esistenza e, in qualche misura, ci colloca in quello che, in fondo, è diventato un paradiso artificiale che nella nostra società e cultura del dovere è soltanto del “dovere dovere”, appare come un correttivo irrinunciabile, naturalmente a pagamento, penso, e lo dico senza facile moralismo o, peggio ancora, insopportabile disprezzo. Lo come umile dato di fatto: centri benessere, luoghi dove in qualche misura si creano delle nicchie dentro le quali ripararsi dalla corrente, almeno per qualche ora del nostro tempo, con tutto un processo di alienazione gentile e che però ci sembra, alla fine, come ogni alienazione, una dimensione fondamentalmente menzognera e traditrice della realtà in quanto tale, che invece a noi interesserebbe abbracciare senza sconti, senza senza selezioni, senza sottrazioni, lasciatemi dire, senza volervi fare il catechismo del sabato pomeriggio o della domenica mattina, ma il modello dell’Incarnazione ci segna da questo punto di vista.

Non c’è nulla dell’umano che non debba entrare in contatto con questo movimento di amore che fa di tutta la nostra controversa storia il grande luogo di un’alleanza indefettibile. E dunque con questo principio di integrale assunzione della nostra realtà, noi vorremmo con un amore che tenti di essergli simile non selezionare, non parcellizzare, ma davvero abbracciare e farlo sapendo che, lieto o dolorosa che sia la nostra ultima sorte, è soltanto davvero questa dimensione di un amore che vola il modo che ci è dato di imitare quello che avrebbe fatto dire a Ugo di San Vettore: ubi amor ibi oculus, dove c’è amore lì c’è uno sguardo, è quello sguardo che il Signore spalanca dall’alto dei Cieli sollevando una palpebra che gli permette, una volta che è sollevata, di amare la totalità dell’essere, fino a diventare questa totalità il luogo del suo esserci.

Destinati a cose più grandi

E queste sono prospettive che mi sento di condividere perché non vorrei essere qui, soprattutto anche con la mia mise medievaleggiante, a incoraggiare un qualsiasi divorzio fra Cielo e Terra, fra spirito e carne, fra fisica e metafisica. Siamo qui a riscoprire invece tutta quella eccedenza che niente e nessuno può costringerci a contenere in qualsiasi struttura costruita esclusivamente da mano d’uomo.

Ecco, questo lo vedrei davvero come un arrenderci a questo impeto che la nostra Margherita ha cantato con il volo, semplice ma coreografico, di due farfalle che, guardandosi l’un l’altra, si scoprono ormai destinate a cose più grandi di quelle che erano state costrette a immaginare quando stavano ogni istante nel loro buio».

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