Economia
Quando il Private Equity diventa socialmente responsabile
Secondo l’ultimo rapporto della Global Sustainable Investment Alliance (GSIA), il mercato degli investimenti sostenibili è passato da 13.300 miliardi di dollari a inizio 2012 a 21.400 miliardi a inizio 2014.
Il fronte della sostenibilità, vale a dire un’economia che si ponga concretamente la questione di salvaguardare la società e conservare l'ambiente per le generazioni, sta conquistando il mondo finanziario.
Secondo l’ultimo rapporto della Global Sustainable Investment Alliance (GSIA), il mercato degli investimenti sostenibili è passato da 13.300 miliardi di dollari a inizio 2012 a 21.400 miliardi a inizio 2014.
Insomma, oggi a molti investitori non basta accrescere il valore del proprio risparmio. Cercano forme di investimento particolari che rispettino i criteri Esg, vale a dire ambientali, sociali e di governance societaria.
Ma qual è il profilo dell’investitore socialmente responsabile? C’è chi è ispirato da principi religiosi, c’è chi considera la natura dei beni e servizi dell’azienda, la sede delle sue attività o il modo in cui conduce gli affari, ma anche l’impatto positivo che il proprio investimento può generare sul benessere degli individui e della collettività.
Eppure nonostante una accresciuta sensibilità sia dei risparmiatori sia delle società di gestione rispetto all’opportunità di puntare su standard «etici» elevati, in Italia, l’SRI (acronimo dall’inglese Sustainable Responsible Investment), le dimensioni del mercato restano ancora ridotte.
Come ha evidenziato l’AIFI, l’Associazione italiana del private equity e venture capital, questa particolare categoria di investimenti stenta ad affermarsi nel nostro Paese non solo per ragioni di ordine culturale (scarsa conoscenza, pregiudizi negativi diffusi sul settore). C’è di più. Il contesto italiano è caratterizzato dalla presenza di investitori istituzionali di dimensioni limitate, un numero ridotto di società di gestione di grandi dimensioni e da un approccio dei fondi SRi basato sull’esclusione, una strategia che rischia di ridurre la diversificazione e limitare le potenzialità di crescita. La politica dell’esclusione mira infatti ad eliminare dall’universo investibile alcuni settori sensibili (armi, tabacco, pornografia e pellicce) e società che presentino gravi problematiche in termini di condizioni di lavoro o di inquinamento derivante dalla produzione.
Per queste ragioni, nell’ambito della Settimana Sri, il Forum per la Finanza Sostenibile e l’AIFI, Associazione italiana del private equity, venture capital e private debt, hanno pubblicato delle linee guida per aiutare i gestori di fondi di private equity a integrare gli aspetti ambientali, sociali e di governance nella valutazione delle imprese non quotate, soprattutto piccole e medie imprese, che promettono esternalità socio-ambientali. Inoltre includere un’analisi di sostenibilità nelle decisioni di investimento”, spiega il manuale, determina diversi vantaggi. Innanzitutto una riduzione dei rischi (ad esempio reputazionali) e dei costi aziendali, generata dall’ottimizzazione di alcuni processi, ad esempio, riduzione degli sprechi, oltre a costituire un elemento distintivo in grado di caratterizzare e fare emergere il gestore rispetto ai concorrenti.
Perché secondo uno studio pubblicato da Malk Sustainability Partners nel 2013, il 75% degli investitori include le tematiche ESG tra i criteri di scelta del proprio gestore. In questo modo gli investitori possono "dire la loro", nel tentativo di orientare le aziende ad adottare un modello di business più etico. Gli investitori socialmente responsabili possono usare il private equity sostenibile per massimizzare sia i rendimenti finanziari, perché investono in fasi precoci dell’impresa, sia gli impatti sociali.
Ma vale la pena? Sebbene alcune imprese possano mostrarsi restie a integrare gli aspetti ambientali, sociali e di governance all’interno della propria attività, il gestore del risparmio può sottolineare il valore aggiunto di un orientamento SRI e trasformarle in imprese più responsabili.
E tutto questo in attesa, concludono gli autori, che siano i governi e i regolatori a fare pressione per l’integrazione di criteri Esg, soprattutto in Europa e nelle regioni dell’Asia e del Pacifico. Si pensi, per esempio, alla recente approvazione della Direttiva europea sulla rendicontazione delle informazioni non finanziarie, in fase di recepimento nei Paesi dell’Unione, che prevede proprio l’obbligo per alcune tipologie di aziende di fornire un’informativa relativa alla gestione di tematiche sociali e ambientali. Si tratta di una normativa specifica sull’informativa di sostenibilità da fornire agli stakeholder al fine di valutare al meglio i rischi e le opportunità legate alle performance non finanziarie delle aziende in cui investire.
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