Per poter mobilitare le energie, innanzitutto dei consiglieri, è necessario definire la propria identità. Oggettivamente e al di là della retorica che spesso lo caratterizza, il mondo della filantropia istituzionale sembra essere confinato nel ruolo dell’elemosiniere. Ruolo che certo può garantire potere e prestigio, ma che raramente suscita entusiasmo. I contributi degli enti filantropici infatti, per quanto erogati con rigore e serietà, per quanto destinati ad attività meritorie, per quanto rendicontati e comunicati con trasparenza non sono, nella maggior parte dei casi, strutturalmente diversi dall’obolo che un tempo veniva destinato ai poveri vergognosi o ad altre iniziative analoghe. Si tratta allora come ora di risorse spesso fondamentali per chi li riceve, ma che raramente sono in grado di generare un effetto sistemico. La difficoltà con la quale gli enti d’erogazione riescono a descrivere l’impatto della loro attività è una prova evidente di tale impasse.
Questo problema accomuna la gran parte degli enti d’erogazione indipendentemente dall’età e dalle risorse disponibili. Negli stessi Stati Uniti, dove la filantropia istituzionale ha una grande tradizione, è raro che, anche i meglio informati ricordino un cambiamento sociale generato grazie all’attività delle fondazioni. Sembra quasi che l’essere percepiti come dei semplici bancomat, più o meno sofisticati, sia l’ineludibile destino degli enti d’erogazione. Del resto la modalità considerata più promettente, quella cioè di investire in progetti innovativi e replicabili si è dimostrata ben poco efficace. Non solo è molto difficile che qualcuno trovi le risorse per finanziare le iniziative di successo sperimentate grazie ai contributi delle fondazioni, ma, in realtà, in un settore multidimensionale come quello in cui operiamo, in cui i problemi non sono semplicemente complicati, ma complessi in quanto dipendenti dalle relazioni e dall’empatia che si stabilisce fra i vari soggetti, il successo di un determinato progetto e la sua astratta replicabilità non ci garantisce nulla sulla sua reale efficacia in altri contesti e con il coinvolgimento di altre persone.
Il problema è che, considerate le risorse limitate di cui necessariamente la filantropia istituzionale dispone, essa finisce necessariamente per agire solo su un numero molto limitato, di norma irrilevante, della popolazione target. I risultati positivi che pure vengono generati, annegano perciò nel più ampio contesto in cui sono immersi e finiscono per scomparire senza lasciare traccia. Al di là dei proclami, sembra proprio che l’unico ruolo che veramente la filantropia istituzionale può ritagliarsi sia quello dell’elemosiniere che, rinunciando ad ogni velleità di cambiamento sociale, dà un aiuto concreto e reale ad alcune delle tante persone che si trovano nel bisogno, ben sapendo che il suo impatto non potrà che essere modesto a livello sistemico, anche se fondamentale per i pochi che ne beneficeranno. In una simile ottica, forse hanno ragione quegli enti che riducono al massimo la loro struttura operativa, rinunciando di dotarsi di figure professionali il cui valore aggiunto rischia di rivelarsi più teorico che reale.
La dissoluzione dello stato sociale che contraddistingue il presente periodo storico ci obbliga però a chiederci se il mondo della filantropia istituzionale non possa dare un contributo rilevante nella costruzione di quella società solidale e sussidiaria che è da tutti invocata, ma che stenta a decollare. In questa prospettiva non si tratta più di cercare il singolo progetto per quanto innovativo e astrattamente replicabile, ma di contribuire alla costruzione di una nuova infrastruttura sociale che permetta a ciascuna comunità di elaborare, di volta in volta, le risposte adeguate alle sfide con le quali è chiamata a confrontarsi.
Una delle modalità che le fondazioni di comunità hanno seguito per dare un proprio originale contributo al conseguimento di questo obiettivo è quello di promuovere il dono, non semplicemente come strumento per raccogliere risorse con cui finanziare iniziative d’utilità sociale, ma come fine in sé. La diffusione del dono può infatti contribuire in modo rilevante all’incremento di quel capitale sociale fatto di fiducia e di rispetto reciproco che è un requisito importantissimo per il buon funzionamento dei meccanismi del libero mercato e delle istituzioni democratiche. Inoltre il dono, invece di essere considerato come una sorta di dovere morale, può rivelarsi un’importante opportunità per il donante, in quanto lo aiuta a rispondere ad alcune esigenze profondamente umane che la nostra società non sembra in grado di soddisfare in modo adeguato. Si pensi solo al bisogno di senso ed identità, all’esigenza di vivere relazioni veramente umane perché non strumentali, al desiderio di sperimentare emozioni autentiche per capire come mai la maggior parte dei donatori testimonierà come spesso riceva molto di più di quello che dona. Contemporaneamente la diffusione dei principi del valore condiviso sta aiutando diverse imprese a considerare le loro attività filantropiche non più come un costo giustificato dalle pressioni sociali o dalla tradizione, ma come un investimento utile per perseguire quelle economie esterne senza le quali diventa spesso impossibile far fronte alla competizione prodotta dalla globalizzazione. Queste evidenze, accompagnate dalla constatazione di come la nostra società ponga infiniti ostacoli a chi desidera dare il proprio contributo per il perseguimento di finalità d’utilità sociale, impongono la necessità di creare un’infrastruttura che abbia come fine quello di aiutare a vivere l’esperienza del dono, liberando il donante da tutti quegli oneri burocratici e amministrativi che rischiano di scoraggiare anche il meglio intenzionato, rendendolo consapevole delle effettive opportunità che è possibile cogliere senza necessariamente dovere viaggiare per migliaia di chilometri, aiutandolo a sfruttare al meglio gli incentivi che pure esistono, ma soprattutto creandogli l’occasione per vivere questa esperienza proteggendolo da un mondo frenetico che, mettendolo in una condizione di perenne agitazione, gli impedisce di realizzare quello che è veramente importante per testimoniare la propria umanità.
Un’altra strada che gli enti d’erogazione possono seguire per evitare di operare come semplici elemosinieri può essere quello di intervenire prima delle emergenze in una logica preventiva. Spesso, anche con risorse limitate, è possibile intervenire tempestivamente, evitando così che si generino problemi di ben altra portata. Essi sono spesso nella posizione privilegiata per raccogliere informazioni e hanno la flessibilità per destinare risorse con grande rapidità là dove esse possono essere più necessarie. Per esempio, davanti all’emergenza alimentare che si acuirà con la chiusura del programma europeo che destinava a tal fine le eccedenze agricole e che manifesterà i suoi effetti soprattutto dal prossimo aprile. Le fondazioni possono non solo mobilitare risorse al fine di evitare che tale carenza si manifesti in modo particolarmente grave, ma anche utilizzarle per stimolare nuove donazioni da parte della comunità, favorire una più efficiente gestione delle stesse, promuovere un migliore e più efficace recupero di quel cibo che altrimenti andrebbe distrutto, così da porre le basi per la creazione di un nuovo equilibrio che possa essere sostenibile nel lungo periodo. Tale attività potrebbe rivelarsi un ottimo prologo per individuare modalità che, proprio partendo dall’aiuto alimentare, creino le condizioni affinché un numero crescente di persone possano uscire dal loro stato di bisogno.
Proprio quest’esempio illustra le altre due strade maestre che gli enti d’erogazione ed in particolare le fondazioni di comunità possono decidere di scegliere per contribuire a superare la crisi dello stato sociale: il rafforzamento delle capacità operative delle organizzazioni caritatevoli e lo sviluppo delle relazioni. Da un lato la consapevolezza che i problemi sociali sono problemi complessi che non possono essere risolti sulla base di qualche astratta soluzione, per quanto sofisticata essa possa essere, ma solo dalla capacità di chi opera in prima linea di sviluppare approcci flessibili in grado di adattarsi alle specifiche esigenze delle persone in difficoltà, dall’altro la constatazione che essi sono multidimensionali e che quindi devono essere necessariamente affrontati da una pluralità di punti di vista diversi, sta spingendo un numero crescente di fondazioni ad utilizzare le proprie risorse per finanziare le capacità operative degli enti o per rafforzare le relazioni promuovendo la creazione di grandi coalizioni composte da numerosi soggetti provenienti da tutti i settori, spesso seguendo la metodologia dell’impatto collettivo.
Infine la constatazione di come l’intervento pubblico e gli automatismi del libero mercato e le loro combinazioni non siano in grado di permettere alle nostre società di conseguire la piena occupazione sta moltiplicando le opportunità per l’imprenditoria sociale. Appare sempre più evidente come, soprattutto per quel che concerne i servizi alla persona, la tutela dell’ambiente, la valorizzazione del patrimonio culturale sia necessario lo sviluppo di forme imprenditoriali che sappiano combinare gli introiti provenienti dalla vendita dei beni e dei servizi, i contributi pubblici e le donazioni private così da ottenere una sostenibilità economica che nessuno di questi aspetti sarebbe in grado di garantire se isolato. La filantropia istituzionale partecipando al capitale di rischio di queste imprese, ponendosi come agente fiscale così da garantire i benefici fiscali ai donatori e, attraverso opportuni accordi, mettendo a disposizione forme di assistenza tecnica e strategica, potrebbe svolgere un ruolo fondamentale nel far crescere un settore che può rivelarsi strategico, non solo per dare una risposta ai crescenti bisogni sociali che contraddistinguono una società avanzata ed invecchiata come la nostra, ma anche come opportunità di lavoro per un numero crescente di persone, soprattutto di giovani, dando così un contributo importante alla ripresa economica, oltre che morale e civile della nostra società.
Questi approccio non solo sono strategici e possono rappresentare un’importante via d’uscita alla crisi presente, ma possono anche essere tradotti in obiettivi specifici e in indicatori misurabili che gli enti d’erogazione possono utilizzare per misurare la propria efficacia e giustificare gli investimenti necessari al loro conseguimento. A differenza di altre realtà, gli enti d’erogazione non hanno dei criteri oggettivi in grado di misurare la loro efficacia. Bisogna riconoscere che i progetti di norma non possono essere comparati in quanto ciascuno è unico ed è quindi quasi impossibile mostrare che una fondazione ha erogato male i propri soldi. Come stabilire se è meglio restaurare un quadro o acquistare un pulmino? Inoltre, chi ha ricevuto il contributo raramente si lamenta, mentre chi non lo ha ricevuto non vuole, nella maggior parte dei casi, precludersi, con critiche troppo violente, la possibilità di riceverlo in un futuro. Per questo diventa fondamentale dotarsi di indicatori sintetici che in qualche modo possano riassumere il significato dell’attività della fondazione, siano essi il numero e il valore delle donazioni raccolte, i cambiamenti nell’efficienza gestionale degli enti sostenuti, il numero di nuovi posti di lavoro o qualunque altro criterio, magari individuato nell’ambito di un’iniziativa di impatto collettivo che, senza pretendere di esaurire il significato dell’attività della fondazione, possano però permetterle di uscire dall’indeterminatezza in cui è ora condannata, tanto che, davanti alla richiesta di descriverne l’azione, ci si trova costretti ad indicare il numero ed il valore delle proprie erogazioni, esattamente come potrebbe fare un bancomat.
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