Non profit

Quale fiducia?

di Bernardino Casadei

Oggi non c’è analista che non concordi sul fatto che uno dei fattori fondamentali che è alla base della crisi presente debba essere cercata nella perdita generalizzata di fiducia. Si tratta di un’unanimità che probabilmente nasconde un’ambiguità, ambiguità che è necessario chiarire se non ci si vuole condannare alla sterilità. Bisogna quindi chiederci se la fiducia che dobbiamo restaurare è quella dei consumatori che, non avendo un reddito adeguato, tendono a contrarre i loro consumi o è piuttosto quella dei cittadini che non hanno più una prospettiva in grado di mobilitare le loro energie, dando un senso e un significato ai loro sforzi.

Se la soluzione è la prima dovrebbe bastare immettere nuova liquidità per creare le condizioni di cui abbiamo bisogno per superare la presente impasse e quindi il compito della filantropia istituzionale non può che essere marginale e, nel migliore dei casi, potrebbe consistere nell’incrementare il più possibile il volume delle proprie erogazioni, in attesa che il ciclo economico possa ripartire. Qualora invece la causa di questa crisi dovesse essere cercata nella perdita di fiducia da parte dei cittadini, sarebbe necessario un approccio di ben altro tipo.

Bisogna allora iniziare col chiederci come sia possibile che uno dei Paesi più ricchi al mondo abbia una percentuale così elevata di famiglie che fanno fatica ad arrivare a fine mese, per poi domandarsi se questa situazione paradossale e assurda non ci imponga di ripensare radicalmente i nostri modelli di sviluppo. Per decenni abbiamo creduto che la modalità più efficace per promuovere la crescita economica dovesse essere cercata nell’eliminazione dei legami che, in quanto legami, non possono che limitare la nostra libertà di azione e quindi ridurre la nostra produttività. Purtroppo non ci si è resi conto che questa sistematica eliminazione di ogni legame non era senza conseguenze, ma aveva un costo che andava ben al di là delle energie che era necessario mobilitare per superare le resistenze corporative. Non si è capito che eliminare i legami significa isolare l’individuo, oltre che privarlo della sua identità, e un individuo isolato e sradicato è necessariamente un individuo debole, un individuo fragile che entra in crisi davanti al più piccolo degli imprevisti.

Se un tempo la persona poteva contare su una rete di relazioni in grado di sostenerlo nei momenti di difficoltà, l’individuo moderno ha bisogno di un costoso apparato che, fra l’altro, è, di norma, molto meno efficace, efficiente ed economico dell’aiuto reciproco. Nel contempo dobbiamo riconoscere che la solidarietà e la sussidiarietà non possono essere imposte per legge. In una società disgregata e frammentata esse non potranno mai svilupparsi e i cittadini saranno sempre più dipendenti dalla presenza di una costosa macchina burocratica, necessariamente finanziata con contributi pubblici, anche se eventualmente gestita da soggetti privati.

Queste brevissime riflessioni indicano come un aumento della produttività dovuto all’emancipazione dai legami personali rischia di trasformarsi in un aumento più che proporzionale dei costi sociali con un saldo negativo che non può non aggravare il circolo vizioso in cui ci troviamo. Del resto, l’esperienza di questi anni mostra, con evidenza, come i benefici dovuti all’aumento della flessibilità non sono in grado di compensare i costi sociali collegati alla crescita della precarietà.

Se questa seconda prospettiva si rivelasse corretta, bisognerebbe necessariamente concentrare ogni energia nel favorire la rigenerazione dei legami comunitari. È questa infatti l’unica strada capace di aiutare il cittadino a ritrovare quella fiducia di cui ha bisogno per dare una risposta positiva alla crisi presente. In questo processo la riscoperta il dono, proprio perché si tratta di un’esperienza in grado di resistere a quel pensiero strumentale che è il vero fondamento delle teorie economiche e sociali che ci hanno portato a questo punto, può svolgere un ruolo fondamentale.

Si tratta di una sfida complessa e impegnativa che le nostre istituzioni non sono probabilmente preparate ad affrontare, ma in cui la filantropia istituzionale può svolgere un ruolo ben più importante delle risorse economiche che è in grado di mobilitare. Nata dal dono, essa è forse il soggetto che meglio di ogni altro può coglierne l’essenza e quindi promuoverne lo sviluppo. Mentre le altre organizzazioni del privato sociale sono di norma sommerse dalle esigenze legate alla sopravvivenza quotidiana e così finiscono per subordinarsi a logiche produttivistiche dimenticando che il loro valore aggiunto non deve essere cercato nella quantità e nella qualità dei beni e dei servizi da loro realizzati, ma nella capacità di rendere civile la nostra società, gli enti d’erogazione possono svolgere un ruolo fondamentale per aiutarci a riscoprire queste verità. In altre parole, il compito della filantropia istituzionale non dovrebbe essere quello di selezionare e finanziare i migliori progetti (l’impatto di risorse marginali, per quanto utilizzate in modo efficace, non può che essere marginale), ma nel creare le condizioni affinché un numero crescente di cittadini possa sperimentare il piacere e la gioia che solo il dono può regalare, così da umanizzare il mondo in cui viviamo e ritrovare l’entusiasmo e le energie di cui abbiamo bisogno perché, dalla crisi presente, possa nascere una società capace di promuovere la dignità della persona.

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