La storia del signor Baratto è perfetta. Assurda, surreale, anche se dopo i due anni che abbiamo vissuto, e la nuova guerra in corso in queste ore, che cosa si può ancora qualificare così? Tutto è diventato realistico.
Ebbene Baratto è figlio della creatività di Gianni Celati: è un signore giovane che, dopo l’ennesima sconfitta a rugby, ai suoi compagni di squadra grida che “non c’è niente da discutere” e se ne va, rispondendo a chi lo chiama che non ha più voglia di parlare. E non per modo di dire: comincia a tacere per settimane, mesi. Non dice più nulla, non una sillaba agli amici, né a scuola dove è professore di ginnastica, né alla moglie, ai vicini, al cassiere del supermercato. Zero. Muto. Ma continua a vivere.
Come appartenendo a un’altra dimensione, rispetta le sue abitudini, la corsa quotidiana, i riti domestici, le visite ai dirimpettai soli, gratificati dalla sua disponibilità a cenare da loro. Soprattutto dal suo mettersi lì, tranquillo, senza fretta, ad ascoltarli. Tacendo Baratto diventa un collettore di persone sole e alquanto sconfortate, inconsapevoli di avere bisogno di raccontare a qualcuno la propria vita finché non cominciano a farlo con lui. Parlare a quel giovane silente diviene una terapia che rasserena. Sembra un controsenso, ma lui sa fare compagnia da muto.
Le frasi vengono e poi vanno, e fanno venire pensieri che poi vanno.
Parlare e parlare, pensare e pensare, poi non resta niente.
La testa non è niente, succede tutto all'aperto
G. Celati, Baratto
Perfino il preside di Baratto resta spiazzato, non capisce come gestire questo insegnante che non proferisce verbo, né agli allievi, né ai colleghi. Prima prova a metterlo alle strette. Poi osservandolo a distanza arriva a sospettare che la sua non sia una disgrazia ma il contrario, una “grazia”. Che parola antica sceglie Celati per descrivere questo silenzio: non è vuoto, ma un pieno.
Anche visto così, non è che l’enigma di Baratto si risolva, resta scomodo. Eppure molte persone continuano a cercarlo, non si stancano della sua stranezza, a parte la moglie in realtà, si sentono comprese (abbracciate?) da lui. E in effetti lui le capisce, le sa proprio ascoltare.
Lo stesso Baratto si rende conto che, mentre tiene a freno la lingua, non ha smesso di pensare, anzi. Solo si è “spostato”: ha iniziato a pensare i pensieri degli altri. Ride quando capisce che è atteso il suo sorriso, si sorprende, si avvicina o allontana quando coglie le attese altrui. E guarisce. Come in un giorno qualunque ha smesso, così all’improvviso ricomincia a parlare.
Lo strano Baratto e i suoi vicini di casa sono protagonisti di una trama semplice che lascia intravedere un altro potere paradossale delle parole: il potere di nascondere. Di occultare fatti, camuffare bisogni, inondare spazi liberi per evitare che emerga altro, qualcosa che potremmo temere o trovare scomodo, come – appunto – i pensieri degli altri.
Un giorno qualcuno ci chiederà conto delle parole inutili che abbiamo usato solo per dire che esistiamo, per avvisare che sì, attenzione, siamo qui, tocca a noi farci sentire! Quanti sostantivi, verbi, opinioni abbiamo incastrato in architetture complesse che più che avere a che fare con noi, rispondono all’obbligo di dire qualcosa agli altri? O di creare muri che ci separano dalla realtà degli altri, e anche nostra?
Ci si potrebbe esercitare a smettere di buttarle via così. Non si tratta solo di spreco di parole, tanto – oserebbe scusarsi qualcuno – non costano nulla. Il punto è che rischiamo di annegarci dentro qualcosa di interessante e di buono. Qualcosa di vero per noi e per chi sta con noi.
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