Welfare

Purché non sia solo una “riduzione del danno”

Lavoro in galera: lontano dai facili ottimismi.

di Ornella Favero

Le buone notizie, si sa, si ?vendono poco? dal punto di vista giornalistico. Le buone notizie dal carcere sono ancora meno appetibili perché presentano un duplice rischio: immaginiamo per esempio di presentare una bella esperienza lavorativa in galera. Si rischia di sentir dire «ma allora dentro stanno anche troppo bene!» (e questa è la reazione forse più rozza e facilmente contrastabile); oppure, ed è una reazione che capita anche a quelli che si occupano di carcere seriamente, c?è chi si esprime così: «Quelle persone si stavano rovinando la vita, il carcere in fondo le ha fermate, ha dato loro la possibilità di ricostruirsi, di dedicarsi a una attività positiva e acquisire una professionalità spendibile anche sul mercato». Realtà innovative, come l?inserimento dei dati degli abbonati Rai alle Vallette di Torino, o la sartoria della Giudecca, o l?azienda agricola di Velletri, proprio perché fanno pensare che le carceri, se funzionassero ovunque un po? meglio, potrebbero rappresentare una fase dura, ma anche utile nelle vite spesso disastrate di chi vi è rinchiuso, richiedono invece uno sforzo di comprensione e di approfondimento. Il carcere, è meglio non dimenticarselo, rinchiude prima di tutto i corpi, li logora e li porta a un lento degrado, e poi rinchiude le menti, rendendole infantili perché le costringe a una continua obbedienza e dipendenza da chi ha il potere, dunque è impensabile, credo, parlare in modo ?normale? di utilità del carcere. Mi sembra più realistico parlare di ?riduzione del danno? da carcere: bisogna lavorare per offrire alle persone detenute delle opportunità per non ?ammazzare? il tempo in galera, ma usarlo al meglio possibile, e nel frattempo impegnarsi perché rinchiudere la gente in gabbia resti l?ultima soluzione. E il danno è comunque un po? minore in quelle carceri dove si tentano strade innovative sfruttando il bene più disponibile, il tempo, e usando la creatività per reinventare lavori artigianali, o attività come il Call Center di San Vittore, dove chi lavora deve avere soprattutto pazienza e gentilezza, qualità che forse uno in carcere impara ad apprezzare di più di chi sta fuori. Un?altra considerazione: nel nostro Paese si tende a mitizzare il valore del lavoro (anche quando non c?è), e a ritenere che una persona che in carcere prima, e in misura alternativa poi, ha un lavoro abbia quasi tutto quello che serve per reinserirsi nella società. Mi pare invece interessante il modo in cui si affronta il problema in Olanda: lì le persone detenute sono impegnate nel lavoro alcune ore, e le altre ore le dedicano ad attività culturali. E questa è una opportunità per crescere davvero, per ?attrezzarsi? per la vita fuori, per costruirsi finalmente quelle competenze che il lavoro in carcere (quando c?è) da solo non può dare.


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