Welfare
Pupi Avati: «Io e la vecchiaia»
Il grande regista bolognese ha una vera e propria fascinazione per la terza età: «Le persone vulnerabili sono prive di corazza e per questo sono capaci di sognare molto più dei giovani»
di Redazione
Risponde al telefono dalla sua casa romana. Sono giorni di riposo dopo il malore che lo ha colpito a Bologna durante le riprese del suo nuovo film che si intitolerà La quattordicesima domenica del tempo ordinario. Pupi Avati, il grande maestro del cinema italiano, a 84 anni sta girando nella sua città natale la storia di «una coppia ormai in là con gli anni, che si ritrova dopo essersi lasciata 35 anni prima. Due vite ferite da altrettanti fallimenti professionali e umani che si incontrano di nuovo per unire le loro solitudini, pensando che in due forse è più facile che da soli».
La terza età è un suo tema: cosa la affascina della vecchiaia?
La vulnerabilità. È una qualità dell’essere umano che ti avvicina terribilmente a tutto il resto, ti priva di tutti gli anticorpi, di tutte le diffidenze, di tutte le pelli e le corazze che ti sei costruito. La persona vulnerabile è la persona totalmente scoperta che aderisce al mondo e quindi agli altri. L’ho scoperto partendo dalla considerazione che alla mia età oggi ho un rapporto con i bambini che non avevo certamente prima. Io e i bambini ci percepiamo, ci capiamo, ci intuiamo. Quando li incontro, li sento molto vicini. Invecchiando sempre di più sto tornando ad essere quel bambino che sono stato. Gli assomiglio. Mi si sono affacciate addirittura locuzioni verbali tipiche dell’infanzia.
Per esempio?
Sono tornato a dire “per sempre”. Solo i bambini dicono “per sempre”, perché solo loro credono che le cosa possano durare in eterno. In questa fase conclusiva della mia vita io provo una fascinazione, una seduzione nei riguardi del “per sempre” e quindi nei riguardi della circolarità del tempo che ti fa tornare al bambino che sei stato; ad avere nostalgia dell’essere figlio. Picasso diceva che ci vogliono tantissimi anni per diventare giovani. Io penso che abbia ragione. Lo sto sperimentando su me stesso. Ho un fisico recalcitrante, con tanti problemi di tutti i generi però intellettualmente, spiritualmente e mentalmente non mi sento per niente quel vecchio che appaio se mi specchio in una vetrina. Dentro di me c’è ben altro, sono rimasto ancora quel ragazzetto che adesso trova un suo diritto di cittadinanza: i vecchi sono molto più giovani dei giovani ed è una cosa che sto scoprendo in questi anni.
In che senso «i vecchi sono più giovani dei giovani»?
I vecchi sono capaci di sognare. Di sognare e progettare grandi sogni. Non lo dicono per pudore. Io invece lo dico senza correre il rischio di essere preso in giro. I giovani hanno tutti un piano B che significa credere relativamente al piano A. Quando faccio scuola di recitazione ai ragazzi e magari sollevo qualche obiezione sull’interpretazione e dico “secondo me tu potresti fare meglio”, loro mi rispondono “tanto se non va bene ho un piano B”. Se hai pronto il piano B, sei già preparato a rinunciare al piano A. Il piano A sono i sogni e solo se sogni, i sogni si realizzano. Sono stato per 20 anni ad aspettare di fare un film su Dante Alighieri e poi ci sono riuscito. Se però non avessi perseverato e se avessi avuto un piano B, non avrei mai fatto Dante.
Ho letto che uno dei suoi sogni è ritornare nella cucina della sua vecchia casa di via San Vitale 51 a Bologna. Cosa c’è in quella cucina?
Ci sono i miei genitori che aspettano me ragazzino che rientro a casa. C’è il senso di essere riaccolto da dove me ne sono andato diventando prima adolescente e poi uomo. I contadini lo chiamano “scavallamento”: è il momento in cui il fisico non ti rappresenta più. Il mio cuore e i miei reni sono stanchi. Lo sento e il guaio che ho avuto in questi giorni me lo ricorda. Qui nasce la nostalgia della giovinezza. Una nostalgia proustiana; è il momento in cui il futuro e i ricordi cominciano a sovrapporsi e il passato sostituisce il futuro. Un passato che diventa rifugio. Prima c’è la nostalgia per la giovinezza. Pensi al ragazzo che eri. Poi arriva la nostalgia per l’infanzia. Non hai più voglia di essere un ragazzo, ma sei sedotto dall’idea di essere figlio, cioè di essere riaccolto in quella cucina di via San Vitale 51 dove mi aspettavano mio padre e mia madre e mentre io rendicontavo la giornata ai miei genitori mi sentivo veramente felice.
In lei c’è spazio per la paura dell’ignoto e della morte?
C’è per il dolore che tu sai che recherai agli altri nell’andartene. L’ho vissuto soprattutto nei confronti di mia madre. Nel momento in cui è morta non seppi perdonarla di essere morta perché il dolore che mi stava recando era incommensurabile: è morta da vent’anni e io ho ancora una cicatrice aperta. Nei miei figli e nelle persone che mi vogliono bene, so che in quel momento, di cui io non mi renderò conto, si genererà una ferita. Saranno mesi, forse anni, molto duri. La morte in realtà non ti riguarda mai personalmente, ma riguarda quelli che rimangono, è il dolore di chi rimane. È una cosa che io vorrei risparmiare ai miei cari. Se potessi vorrei sparire senza morire, ma non si può fare.
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