Neanche i visionari Cccp Fedeli alla Linea l’avevano previsto (si erano limitati all’Islam). Anche il capitalismo è punk. Tanto da intitolare un libro appena uscito e che, guarda caso, si candida a caso editoriale (se poi sarà dell’anno, del mese o del giorno lascio a voi decidere). La tesi è semplice: la cultura punk, dalla quale provengono molti giovani dell’area creativa e dell’ICT, influenza il modo di fare impresa appropriandosi in modo non autorizzato di idee, strumenti, metodi per riproporli, uguali ma diversi, in forma di nuovi prodotti e servizi. Insomma è l’arte del remix che guarda caso intitola un altro recente libro (anch’esso candidato allo stesso premio del precedente) che invece recupera un baluardo della club culture come metafora delle nuove forme di produzione culturale. Basta così? Neanche per sogno perché oggi il marketing e persino l’organizzazione d’impresa sono comunità “tribali” grazie alle tecnologie del web 2.0. Al fondo ci vedo una questione tutta da impresa sociale, cioè il carattere collettivo, o comune, sia dei beni che delle organizzazioni che li producono. E’ un tema talmente rilevante che chi l’ha studiato ha vinto il nobel per l’economia. Ed è curioso notare che nella sua ultima opera tradotta in italiano si parli di beni comuni non riferendosi, come molti commenti sostenevano ieri, a risorse materiali e ambientali, ma alla conoscenza.
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