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Pubblicità e gioco. Crisantemi (GiocoNews): “Vietare tutto non serve”

Vietare la pubblicità del gioco d'azzardo, in ogni sua forma e modo. Tutto sembra procedere in questo senso: una forte maggioranza in Parlamento, il Paese è concorde. Ma c'è chi solleva alcuni dubbi. Abbiamo sentito a questo proposito Alessio Crisantemi, direttore di Gioco News, la principale rivista di settore.

di Marco Dotti

Vietare la pubblicità del gioco d'azzardo, in ogni sua forma e modo. La nostra posizione è chiara: ci impegnamo per questo. Ma non tutti sono d'accordo e c'è chi porta, argomentandole, le proprie ragioni.

Sul fronte dei critici che ben argomentano, c'è Alessio Crisantemi (nella foto di copertina), direttore di Gioconews, la più autorevole rivista del settore dei giochi pubblici con vincita in denaro. Il suo è uno sguardo tecnico, perché GiocoNews è, tra le altre cose, un osservatorio tecnico privilegiato, diventato un punto di riferimento per chiunque si interessi professionalmente del settore.

Con Crisantemi apriamo una serie di dialoghi sulle pagine di Vita.it, dialoghi che daranno spazio tanto a chi dice "sì", quanto a chi dice "no", convinti che non siano un "no" o un "sì" il punto del contendere, ma la qualità del ragionamento. Se la qualità sarà alta, comunque la si pensi, tutti ne trarremo vantaggio.

Pubblicità e divieti: uno sguardo d'insieme

Partiamo da uno sguardo d'insieme rispetto al problema. Una delle vostre ultime inchieste – giornalisticamente la più approfondita – comparava i sistemi di gioco pubblico diversi, racchiusi nello spazio giuridico europeo, proprio sul tema del divieto o meno della pubblicità nei giochi. Che cosa ne è uscito?

Quello che è emerso, in estrema sintesi, è quello che per alcuni, come il sottoscritto, era il punto di partenza: cioè che il settore dei giochi rappresenta un tema molto delicato – per via degli interessi di carattere pubblico e sociale, e non soltanto economici –, in tutto il Continente, che impone la massima cautela dal punto di vista legislativo e regolamentare. Ma se tutto il mondo è paese, verrebbe da dire, guardando le polemiche che nascono un po’ ovunque quando la politica affronta il tema dei giochi, non si può non notare come alcuni paesi (Regno Unito e Malta in primis) adottino un approccio più laico ma senza dubbio più concreto riguardo alla disciplina della pubblicità come del resto in tutti gli altri aspetti che riguardano il settore.

E poi c’è la Spagna, spesso portata a modello…

È un paese molto simile all’Italia in alcune contraddizioni, che ha posto già tanto tempo fa dei paletti sulla disciplina pubblicitaria, salvo poi lasciare aperte strade a messaggi talvolta troppo spinti. Con promozioni che in Italia non passerebbero già con l’attuale impostazione e forse non verrebbero neanche proposte dalle società di gioco. Il caso spagnolo è comunque un benchmark significativo e per certi versi peculiare, soprattutto per via della netta distinzione tra il canale fisico e l'online. Interessante, nel secondo caso, è stata l'adozione del 'Codigo de conducta' che rappresenta lo strumento di disciplina dell’attività pubblicitaria e promozionale degli operatori online, che impone alcuni limiti ben precisi, sia nella qualità dei messaggi che nella loro diffusione, intervenendo sulle fasce orarie.

Interessante, a mio avviso, la scelta del regolatore spagnolo di vietare l'impiego di personaggi famosi se non nelle campagne di gioco responsabile.

Anomalie selvagge e dati a casaccio

A suo avviso, il caso italiano rappresenta un’anomalia rispetto a questo panorama? Anche sulle cifre, ha qualche dato sugli investimenti pubblicitari in Italia e, prendiamo un esempio, la Spagna?

Onestamente, credo che l’anomalia sia rappresentata dalla richiesta di abolizione totale che viene caldeggiata da un pezzo di Parlamento. E giungo a questa conclusione proprio guardando i dati.

Le stime sull’industria italiana del gioco registrano un calo riguardo agli investimenti pubblicitari che – secondo l'analisi di Ficom Leisure – nel 2013 hanno registrato un decremento del -20,4% rispetto al 2012 per una spesa complessiva di circa 105 milioni di euro. Dopo che, al contrario, nel 2012 c'era stata una crescita rispetto al 2011. Segno evidente che la bolla si è sgonfiata.

Del resto, anche guardando i dati sulle abitudini di gioco degli italiani, il segmento del gioco online – che è quello prevalentemente interessato dalla pubblicità, ricordiamolo – ha perso progressivamente giocatori.

Quindi, non essendoci un aumento degli investimenti in pubblicità da parte delle società di gioco e non essendoci neppure un incremento della spesa dei giocatori, per quale ragione si dovrebbe intervenire con una legislazione di urgenza in Parlamento, o gridare allo scandalo sollecitando un intervento del governo?

Personalmente, devo dirlo, trovo eccessivo l'affollamento di promozioni che si registrano soprattutto sul mezzo televisivo (al quale sono destinati il 54% degli investimenti pubblicitari del gioco) in determinati eventi, soprattutto quelli sportivi, e interverrei in questo senso con dei nuovi paletti. Ma non vedo perché non si possa pensare a una regolamentazione seria e ragionata invece di agire in via impulsiva.

Lei mi ha chiesto dei dati: non ho letto nessun dato al riguardo nei vari dibattiti politici e mediatici su questa materia. Né mi sono mai stati chiesti prima d'ora, se non dalle stesse società del settore. Le sembra normale?

Sui dati credo sia "normale", in un Paese dove sparar dati a casaccio è diventata una professione, tra l'altro ben remunerata non solo in termini simbolici. Comunque, ci dà il suo punto di vista personale, sulle proposte che stanno avanzando alla Camera e al Senato – e che io, personalmente, accolgo e appoggio – per il divieto totale di pubblicità sia su rete fisica, sia su web?

Ritengo tali proposte del tutto incoerenti con gli obiettivi politici perseguiti dallo Stato in materia di giochi ma anche inefficaci. E, mi lasci dire, addirittura pericolose. Incoerenti a livello politico, visto che uno Stato che decide di gestire direttamente il mercato del gioco, punti poi a vietarne la comunicazione, sia quanto meno confuso. Non bisogna mai dimenticare che l’approccio utilizzato dal Legislatore nel Duemila, quando si è regolamentato il settore, prevedeva l’emersione di un mercato sommerso (e molto florido, come attestano i numeri relativi alla domanda di gioco prima del 2003) attraverso una messa in sicurezza progressiva del sistema che passava per la regolamentazione di tutte quelle forme di offerta che venivano già proposte sui circuiti illeciti. Se venisse negata la possibilità di promuovere i giochi, come si potrebbe creare un nuovo gioco o semplicemente aggiornare le regole di un gioco già esistente, se i cittadini non possono venirlo a sapere? Qualcuno dirà: tanto meglio se non escono nuovi giochi. Ma questa obiezione dimentica l'obiettivo appena citato, cioè quello dell'emersione, che può avvenire solo attraverso un'offerta regolamentata, ma competitiva. Altrimenti i giocatori continuano a giocare su piattaforme border line. Inoltre c’è un problema dal punto di vista autorizzativo oltre che economico.

Un operatore che entra sul mercato italiano può scegliere di operare sul canale fisico oppure su quello online (o in entrambi, come avviene in qualche caso). Questo significa che un operatore che si occupa esclusivamente di online ha scelto un business il cui modello è basato esclusivamente sulla comunicazione di prodotto e sul marketing. Perché a differenza degli altri brand non può avere la rete di locali terrestri dove diffondere il suo marchio. Vietare la pubblicità significherebbe per questi soggetti sparire dalla circolazione.

E di certo non avrebbero preso quella concessione se i patti fossero stati questi. Sembra quindi scontato un ricorso alle vie legali da parte di questi operatori in caso di adozione di un divieto totale di pubblicità.

Da un altro punto di vista trovo assurdo che si possa chiedere a gran voce il divieto totale di promozione del gioco lecito senza neanche preoccuparsi delle rèclame degli alcolici, che si susseguono a grande ritmo specialmente in televisione. Così facendo, si andrebbe ad attribuire, per legge, un livello di pericolosità al gioco pubblico addirittura superiore rispetto a quello dell’alcol, quando è noto a tutti che la pericolosità dei due ‘prodotti’ è diversa, come pure i dati relativi alle patologie, e non certo in favore degli alcolici. Troverei più coerente, semmai, chiedere un intervento su entrambi i segmenti. Oppure, se si ritiene innocua o comunque sostenibile l’attuale promozione degli alcolici, allora ecco che abbiamo di fronte un modello da seguire, visto che anche lì convivono campagne di educazione al consumo con quelle di marketing strategico. Ma delle due l’una. Oppure ci stiamo soltanto prendendo in giro. Ma in questo caso lo scherzo potrebbe costarci caro.

Segmenti d'interesse

Quando parliamo di “gioco pubblico” o azzardo legale (so che il termine non piacerà a molti, ma io lo uso proprio per questo) siamo soliti fare di tutti uno. Intendo dire che forse mai come adesso, proprio sul tema specifico della pubblicità, gli interessi e anche i portatori di interessi divergono. In sostanza, sembra vi siano settori più incardinati sulla strada del marketing e quindi dell’advertising e altri – magari quelli di rete fisica – più imperniati sulla publicity, che in inglese, ricordiamolo, non significa “pubblicità”, ma pubbliche relazioni…

È evidente a tutti come gli interessi all’interno di questo settore siano decisamente diversi rispetto ai singoli segmenti in cui si opera e, soprattutto, tra le varie categorie. E forse è proprio questa la causa di tanti problemi, a mio modo di vedere. Riguardo alla pubblicità, se pensiamo al settore degli apparecchi da intrattenimento (slot machine e videolotterie), è facile osservare come questo settore non utilizzi i grandi media per la promozione del prodotto, che evidentemente non ne ha bisogno. Quindi il ‘danno’, per loro, non esisterebbe in caso di adozione di un divieto di pubblicità o sarebbe comunque molto più limitato rispetto a quello che si configurerebbe per gli operatori dell’online. Ecco quindi che potrebbe esserci qualcuno che accetterebbe di buon grado il divieto di pubblicità qualora venisse proposto come alternativa rispetto ad altre restrizioni. Rimane tuttavia il fatto che, con un divieto tout court, anche gli operatori terrestri non potrebbero nemmeno comunicare l’apertura in una sala: e sarebbe davvero un paradosso inaugurare un locale senza poterlo dire alle gente. Inoltre, rimarrebbe comunque l’etichettatura di ‘prodotto nocivo’ di cui sopra, affibbiata al settore, che non farebbe bene a nessuno di loro”.

Legale-illegale

Lei ha più volte espresso il timore che un divieto totale e assoluto di pubblicità possa favorire il settore illegale. Ci spiega meglio?

Ogni volta che parliamo di gioco pubblico, non bisogna mai dimenticare l’esistenza di una rete parallela di gioco illecito che continua ad esistere, nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi anni (e con risultati notevoli, peraltro), sia online che a terra. Il governo, nella legge di Stabilità 2015, ha stimato l’esistenza di oltre 7.000 punti vendita di scommesse non autorizzati sul territorio nazionale e da qui la decisione di procedere con la regolarizzazione fiscale per emersione, dalla quale però si sono ‘sanati’ soltanto 2100 punti. Ciò significa che, nonostante qualche chiusura, esistono ancora oggi migliaia di agenzie non regolari. Ebbene, l’unica arma che hanno in mano i concessionari del gioco lecito per distinguersi dagli irregolari è la pubblicità, che è invece impedita agli operatori sprovvisti di licenza.

Online? Spesso ci dimentichiamo di ciò che corre sulla rete…

Anche online, il discorso è analogo, se non addirittura peggiore. E’ noto a tutti quanto siano diffusi i siti di gioco illegali – i cosiddetti ‘punto com’ – che continuano a proliferare e ad attrarre tanti giocatori. Se vietassimo la pubblicità ai concessionari, come potranno i cittadini distinguere tra un sito legale e uno non autorizzato? Per questo dico che sarebbe un favore all’illegalità, perché renderemmo indistinguibile l’offerta lecita da quella illecita. Un rischio che non possiamo assolutamente permetterci.

La pubblicità imposta: un'anomalia?

Poco sappiamo e poco diciamo, in genere, sulla pubblicità imposta dai bandi ai concessionari. Di tanto in tanto, la polemica riesplode. Lei come la vede, quest’altra anomalia, sempre che di anomalia si tratti?

Onestamente non la considero una anomalia ma uno strumento utile di finanziamento alle attività di carattere pubblico o sociale che lo Stato diversamente non riuscirebbe a finanziare. Se guardiamo ai risultati ottenuti attraverso questo formula – pensando per esempio al finanziamento del Coni attraverso le scommesse sportive ma anche, e soprattutto, ai fondi destinati all’arte dal Gioco del Lotto – scopriamo che sono state realizzate cose straordinarie. L’anomalia, semmai, è quella di mantenere un modello ibrido che, salvo alcune eccezioni, trattiene ancora oggi tutti i proventi del gioco a livello centrale. Se guardiamo al Regno Unito, dove esiste il meccanismo delle cosiddette Good causes, troviamo un sistema più che collaudato in grado di soddisfare Stato, operatori e cittadini. E sarebbe forse il momento giusto per prendere spunto dagli inglesi.

Attestato che così non si può andare avanti – sempre sia questa la sua opinione – quale exit strategy proporrebbe?

Sono d’accordo che un intervento sulla pubblicità sia necessario anche se mi sento di dire che non siamo di fronte a una situazione fuori controllo come sostengono in molti.

Una larga parte dei concessionari del gioco hanno adottato un codice di autodisciplina sui messaggi pubblicitari, attraverso Confindustria e lo Iap, frutto della concertazioni con tv e grandi media, che pone già dei limiti del tutto condivisibili. Certamente si può fare di più, anche per diminuire la concentrazione in determinati momenti e su certi canali (ad esempio, in televisione durante determinati eventi sportivi), ma di certo senza pensare a un divieto tout court. Perché non pensare, per esempio, a una sorta di 'pubblicità progresso' da imporre agli operatori? In ogni caso, disciplinare, regolare e sanzionare. Mai vietare: sarebbe deleterio.

Un’ultima domanda: non le pare che il disastro l’abbiano fatto anche le agenzie di comunicazione e di pubblicità tout court? La cosiddetta “classe creativa”, per capirci… In fondo, c’è una proliferazione di codici e segni del gioco e, in particolare, dell’azzardo spesso usati per reclamizzare prodotti finanziari (penso a certe slot usate da una nota banca per pubblicizzare i propri mutui…) o alimentari che nulla hanno a che fare col gioco e nemmeno dovrebbero con l’azzardo. Non crede che si sia davvero andati troppo in là e si sia passato un limite anche in questo senso?

Sono convinto da tempo del fatto che il settore il gioco sia vittima della pubblicità indiretta dove il tema del gioco e della vincita rappresenta davvero un eccesso. E a proposito di ipocrisie: non sarebbe ridicolo vietare la pubblicità in televisione di prodotti di gioco, per poi fare zapping serale e rimbalzare tra le offerte milionarie dei vari quiz televisivi?

Mi aspetterei, quanto meno, di vedere interrotti anche certi spettacoli che mettono in palio milioni – associandoli peraltro ai sogni e speranze degli italiani, in maniera decisamente deleteria – se proprio si vuole intervenire sulla disciplina pubblicitaria.

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