Psicolabile. Riecco la parola magica. L’aggettivo che diventa sostantivo e si sostituisce alla persona, l’annienta. «Mio figlio è psicolabile dall’età di 18 anni», ha dichiarato subito, con voce dimessa, il padre di Massimo Tartaglia, improvvisamente famoso per aver colpito il premier Silvio Berlusconi con un souvenir di Milano, una riproduzione puntuta del Duomo, un’arma impropria di indubbia pericolosità. Psicolabile, dunque. Punto e basta. Ovvero, cercando sui dizionari, semplicemente «una persona dalla psiche instabile». Non è certo una diagnosi clinica, ma la registrazione di un disagio, di una diversità. Una parola che è entrata nel linguaggio comune dieci anni fa, sempre a dicembre, per tutt’altra vicenda, quella di una ragazzina di Pozzallo, in provincia di Ragusa, che a 13 anni era rimasta incinta, ma non voleva rinunciare alla gravidanza, mentre la madre aveva deciso che sua figlia doveva abortire. «Psicolabile»: probabilmente era nel verbale dei carabinieri. Psicolabile, scrissero e titolarono tutti i giornali. Psicolabile, dissero poi tutti senza porsi problemi. In buona fede anche don Benzi che cercò di salvare il bimbo, facendo appello all’opinione pubblica e ai magistrati. La ragazza perse il bambino per un aborto naturale, qualche mese dopo. Un aborto causato dalle troppe malformazioni del feto. Si scoprì che a metterla incinta era stato il padre. Ma era lei, a 13 anni, «la psicolabile». Oggi è diverso, Massimo Tartaglia vive in famiglia, non ha mai dato a pensare che avrebbe compiuto gesti violenti, è un inventore di quadri musicali. Ma definirlo psicolabile aiuta. Gli fornisce un’etichetta: non c’è bisogno di capire di più. È solo uno psicolabile. Poveretto. E così tutti cominciamo a pensare che gli psicolabili sono tra noi, difficilmente distinguibili, fino al momento del gesto folle, quando lo sguardo si fa allucinato, e si capisce che siamo in presenza di un “diverso”, di un “malato”. Ma non ci riguarda, gli spari sopra non sono per noi.
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