Welfare
Prove tecniche di accoglienza nelle cento Rosarno d’Italia
La cooperazione sociale in prima linea nei luoghi più caldi
di Luca Zanfei
Illegalità, sfruttamento lavorativo, assenza di politiche pubbliche. L’emergenza, in molte parti d’Italia, è sociale e non
di sicurezza. Il terzo settore
la conosce bene. E prova
a sperimentare ricette innovative Da un lato Istat e Caritas gettano acqua sul fuoco in tema di criminalità tra gli immigrati, dall’altro il governo promette speciali task force e piani drastici contro l’illegalità in tutte le zone più calde. L’ordine pubblico innanzitutto. Con il premier che lo dice anche esplicitamente: meno immigrati, meno criminalità. Ma è davvero così semplice l’analisi?
«Non esiste una questione di ordine pubblico e l’emergenza è tutta ad uso e consumo dei media», ribatte Giuseppe Scozzari, presidente di Connecting People, un consorzio nazionale che gestisce strutture di accoglienza di secondo livello al Sud come al Nord Italia. «Il vero dramma si chiama povertà, disagio sociale e soprattutto mancanza di accoglienza e di servizi adeguati per rispondere ai bisogni dei migranti. E il discorso riguarda il Sud come il Nord dove il disagio sociale spesso fa rima con delinquenza». Condizione che rischia di accomunare regolari e clandestini. «Ormai si è capito che è impossibile combattere l’irregolarità con le espulsioni», prosegue Scozzari. «Allora tanto vale far rientrare queste persone in veri e propri percorsi di legalità, coinvolgendo direttamente gli enti locali nell’ideazione di specifiche politiche territoriali. Ma finora da destra a sinistra, nessuno si è mai curato di analizzare e affrontare seriamente il fenomeno».
In qualche caso trovano conforto nell’azione del terzo settore. «Attualmente stiamo conducendo un progetto di inserimento al lavoro per 13 donne», racconta De Lucia. «Ma non è facile trovare aziende disponibili ad accoglierle e, comunque, alla scadenza dei sei mesi del progetto le possibilità di assunzione sono minime». E se in molte zone della Calabria la situazione è allarmante, in Puglia non va meglio. «Nelle campagne del foggiano si sta ricreando lo stesso disagio di Rosarno, con il medesimo grado di sfruttamento e insofferenza da parte della popolazione», spiega Violante Manila, presidente della cooperativa Caps di Bari, esperta nel tema accoglienza. «In realtà già dal 2007 ci stiamo accorgendo della presenza di nuovi immigrati, principalmente africani e quasi tutti clandestini», spiega la Manila. «Il problema è che qui non ci sono strutture di accoglienza e le politiche pubbliche latitano».
Così, ad allarmare non è tanto la convivenza con gli autoctoni, ma l’affermarsi di nuove forme di razzismo. «Sta nascendo un’intolleranza tra gli stessi migranti di diverse etnie o gruppi», racconta la Manila. «D’altronde c’è la gara a chi riesce ad accedere ai pochi servizi di accoglienza e questo non aiuta la tranquilla convivenza. Per il resto assistiamo al crescere del numero di africani che chiedono l’elemosina e al conseguente incremento dei casi di tossicodipendenza e alcolismo».
In una situazione del genere anche per il terzo settore è difficile intervenire. «La mancanza di finanziamenti ci costringe a fare esclusivamente orientamento», continua la Manila. «E per lo più ci limitiamo ad indirizzare le persone all’ufficio immigrazione del Comune, con risultati non certo esaltanti».
Qui la cooperazione è in prima linea sul tema della casa, grazie a progetti di accompagnamento dei migranti regolari nella ricerca di una sistemazione o nell’apertura di mutui agevolati. Ma il difficile è riuscire a coordinare gli interventi anche a livello nazionale. «L’esperienza ci insegna che è possibile riuscire ad allestire una rete di accoglienza e inserimento», spiega Scozzari. «Ci siamo riusciti a Marsala e Castelvetrano, grazie a protocolli di intesa con i Comuni. I Cara e i centri di seconda accoglienza possono diventare delle vere e proprie strutture di inserimento dove si fa bilancio delle competenze, formazione specifica e si crea un collegamento con aziende e altri soggetti sparsi sul territorio. Ovviamente le istituzioni locali devono fare la loro parte, soprattutto nel creare una sorta di coordinamento a livello nazionale, al fine di evitare che si riducano a semplici buone pratiche».
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