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Pronti i referendum contro la privatizzazione

La raccolta firme sui tre quesiti comincerà il 24 aprile

di Redazione

Ingrossate le file del fronte del “No” alla privatizzazione dell’acqua, la battaglia si sposta sul fronte istituzionale. Sono stati consegnati oggi presso la Corte di Cassazione, infatti, i tre quesiti referendari per l’abrogazione del decreto Ronchi promossi dal comitato Referendum Acqua Pubblica. Il via ufficiale all’iniziativa sarà dato ad aprile, in un giorno non casuale, come ha spiegato Marco Bersani, rappresentare del Forum italiano dei movimenti per l’acqua, che nel corso della conferenza stampa di presentazione del progetto nella sede romana Fnsi «la campagna referendaria comincerà il 24 e il 25 aprile perchè pensiamo che la Liberazione comincia anche dall’acqua».

«Dopo aver presentato», ha continuato Bersani, «già due anni fa una proposta di legge di iniziativa popolare per la ripubblicazione dell’acqua con oltre 400 mila firme, oggi lanciamo una straordinaria campagna di raccolta per tre referendum abrogativi. Vogliamo abrogare non solo l’ultima legge del governo Berlusconi ma anche le norme che in passato hanno spinto nella medesima direzione. Vogliamo fare uscire l’acqua dal mercato e togliere i profitti dall’acqua». In particolare il primo quesito si concentra sull’ultima delle leggi in materia approvata dall’attuale governo, proponendosi di “fermare la privatizzazione dell’acqua” con l’abrogazione dell’art. 23 bis della legge nr.133/2008 che stabilisce l’affidamento a soggetti privati della gestione del servizio idrico. Con questa norma secondo il Comitato si vorrebbero definitivamente sul mercato le gestioni di 64 Ato che non sono ancora state affidate o la cui gestione e’ ancora pubblica.  La seconda domanda alla quale viene richiamata l’attenzione degli italiani tratta il tema della “ripubblicizzazione” dell’acqua con l’abrogazione dell’art. 150 del decreto legislativo nr. 152/2006, che definisce come unica modalità di affidamento del servizio pubblico la gara o la gestione attraverso società per azioni a capitale misto pubblico-privato o a capitale interamente pubblico. Ancora secondo il comitato, l’abrogazione dell’articolo favorirebbe il percorso verso una gestione costituita da enti di diritto pubblico con la partecipazione dei cittadini e delle comunità locali.  Il terzo quesito propone invece l’abrogazione di una parte del comma 1 dell’art. 154 del decreto legislativo nr. 152/2006 che dispone una tariffazione “adeguata alla remunerazione del capitale investito”. Per ovviare a sottintesi di strumentalizzazione, padre Alex Zanotelli missionario comboniano ha tenuto a precisare che «solo il primo quesito è contro il governo Berlusconi, gli altri due sono contro quello Prodi».

A sostenere la battaglia del Comitato nei prossimi tre mesi per la raccolta delle 500 mila firme necessarie a poter richiedere il referendum una mobilitazione, siglata in piazza il 20 marzo, che ha raccolto intorno a se il consenso di attivisti provenienti dal mondo cattolico come le Acli, di associazioni ambientalista come WWF e Legambiente, provenienti dal mondo sindacale e dalle associazioni dei consumatori, dalle reti di movimento, dal mondo della cooperazione solidale, dalle forze politiche, non ultime tra queste, Sinistra Ecologia e Libertà, Sinistra Critica, Verdi, Federazione della Sinistra e Partito comunista dei lavoratori.  «Io sono contro la tendenza sciagurata che è quella di privatizzare le reti degli acquedotti e di introdurre la mercificazione del bene acqua che perde la sua caratteristica di bene universale», ha detto il governatore della Puglia Nichi Vendola, «Tutte le esperienze di privatizzazione degli acquedotti hanno prodotto esiti catastrofici. Anche in Italia basta farsi un giro per le città che sono state laboratori di privatizzazioni, come Latina, per accorgersi che si tratta di esperienze fallimentari». Secondo i dati forniti dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua, in questi dieci anni nei territori che avrebbero attuato la privatizzazione le tariffe sarebbero aumentate del 68% con un’inflazione del 20%, gli stessi investimenti ammonterebbero a 2 miliardi di euro l’anno rispetto ai 700 milioni messi in campo in precedenza. Anche sul punto dell’occupazione la riduzione ammonterebbe a -30%, mentre il consumo dell’acqua in uno dei paesi a maggior consumo come l’Italia sarebbe aumentato del 20%.  «Prima di dire che si deve passare al privato si deve riflettere su quelli che sono i limiti dell’azione pubblica e provare a correggerli», ha affermato Stefano Rodotà, giurista e tra gli estensori dei quesiti referendari, «il passaggio culturale e politico necessario è quello di uscire dalla dicotomia pubblico-privato». Per Gianni Ferrara, giurista di Diritto costituzionale all’università di Roma La Sapienza, «siamo al limite della violenta appropriazione di beni comuni da parte dei privati». 

 

 

 


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