Welfare

Proiettili in busta alle assistenti sociali, cronache da un mestiere in prima linea

Sei proiettili in tre buste chiuse sono arrivati nella cassetta delle lettere di un direttore e due assistenti sociali nel Lodigiano. Un caso che genera sconcerto tra gli operatori di una professione cruciale che spesso si sente sotto attacco. L'ultimo report realizzato dall'Ordine nazionale degli Assistenti sociali ha rilevato 7mila aggressioni in un anno

di Daria Capitani

Sei proiettili in tre buste chiuse imbucate a mano. È l’amara sorpresa di inizio anno che un direttore e due assistenti sociali hanno trovato nella cassetta delle lettere. Comune di Lodi in Lombardia, Azienda speciale consortile Servizi intercomunali, area servizio per la tutela dei minori. La paura, lo sconcerto, la solidarietà dei colleghi. È un cerchio che si ripete, gira su se stesso e intercetta uffici, luoghi, operatori in tutta Italia.

I proiettili hanno nell’immaginario collettivo un impatto forte, ma la sostanza non cambia. Il report più recente sulla violenza contro i professionisti dei Servizi sociali, realizzato nel novembre scorso dal Consiglio dell’Ordine nazionale degli Assistenti sociali per l’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie istituito dalla legge 113 del 2020 presso il Ministero della Salute, infila uno sull’altro i dati di un fenomeno che è tutt’altro che marginale. Le 11.500 risposte di assistenti sociali riferite ai 12 mesi precedenti rilevano quasi 7mila eventi di aggressione, 1055 aggrediti, con una media di 6,5 aggressioni per assistente sociale. 312 sono stati colpiti fisicamente, quasi 6mila a parole e quasi 350 hanno subito danni alla proprietà. Numeri che tracciano i contorni di un senso di insicurezza diffuso, compagno sempre più fedele di chi svolge la professione.

Non basta una fiction in tivù

Il successo di pubblico di Mina Settembre, la fiction Rai che porta in tv le avventure di un’assistente sociale tra entusiasmo e fatica, non è la cartina di tornasole di un riconoscimento collettivo. Non basta una fiction per mettere in luce il ruolo sociale di un mestiere. «Gli assistenti sociali sono previsti storicamente nei servizi da norme nazionali e indicazioni regionali», spiega la presidente dell’Ordine nazionale degli Assistenti sociali Barbara Rosina. «Negli ultimi anni tutte le leggi di riforma hanno dato un nuovo impulso alla professione, che assume un ruolo centrale nelle misure di contrasto della povertà, nel supporto ai minori e alle loro famiglie, alle persone con disabilità, anziani, persone con malattia mentale, dipendenze o con problemi legati alla giustizia penale. Siamo negli uffici dei servizi sociali comunali, nei consultori, nelle Asl, negli ospedali, nelle carceri, nei Sert, nei servizi per la salute mentale, in Italia siamo quasi 48mila e, nonostante ci siano state negli ultimi anni molte assunzioni, in alcune aree del Paese siamo in numero insufficiente».

Lavoro povero, malattie, solitudine ci mettono di fronte a situazioni sempre più ampie di fragilità e vulnerabilità che creano insicurezza, conflittualità, preoccupazione

Barbara Rosina, presidente Ordine nazionale Assistenti sociali

Manuela Zaltieri, alla guida dell’Ordine regionale della Lombardia dal giugno 2021, ha da subito voluto esprimere vicinanza e solidarietà alle colleghe coinvolte nell’episodio dei proiettili, «non in modo formale o rituale ma mettendoci a disposizione», ha dichiarato. Oggi in pensione, tutta la sua attività lavorativa si è svolta a diretto contatto con le persone: «Conosco molto bene questo mestiere, le soddisfazioni che può generare ma anche le difficoltà a cui si va incontro, soprattutto quando si entra in contatto con chi sta vivendo situazioni di malessere o disagio familiare». Il mandato del servizio sociale, sottolinea, «è servizio alla persona, e quando di parla di persona si parla spesso di bambine e bambini che soffrono. Il nostro primo obiettivo è costruire benessere e rispondere ai bisogni di crescita e di cura dei più piccoli. Può succedere che il mondo adulto si senta incompreso e non sostenuto, che prevalga un senso di rabbia. È in queste situazioni che diventa fondamentale il riconoscimento della professione. Quando viene meno, gli operatori si ritrovano esposti ad attacchi che possono sfociare in violenza o minacce».

Una polveriera pronta a esplodere

La conflittualità ha i contorni di un fuoco che brucia. E cresce. «Da anni diciamo che siamo seduti sopra a una polveriera pronta a esplodere», conferma Rosina. «Vediamo arrivare nei nostri uffici sempre più persone che fino a qualche tempo fa erano in grado di farcela e oggi non più. Lavoro povero, malattie, solitudine, interventi sanitari a cui non si riesce ad accedere, invecchiamento della popolazione ci mettono quotidianamente di fronte a situazioni sempre più ampie di fragilità e vulnerabilità che creano insicurezza, conflittualità, preoccupazione».

Come si può superare l’aggressività e di conseguenza la paura? «La nostra professione, come le altre professioni di cura, è poco attrattiva. Sebbene non ci siano flessioni nel numero di iscritti nei corsi di laurea, è necessario rendere questo settore più appetibile. Bisognerebbe, e lo diciamo da anni, investire sulla qualità della rete dei servizi fatta da assistenti sociali e da altri professionisti come educatori, psicologi, infermieri e medici lavorando sul benessere delle organizzazioni, luoghi che dovrebbero riconoscere il merito degli operatori anche creando dei percorsi contro la violenza che si rischia sul posto di lavoro», continua la presidente nazionale. «Non possiamo sottovalutare il fatto che siamo operatori spesso sotto i riflettori per casi difficili, abbiamo stipendi che non sono collegati alle responsabilità che dobbiamo assumerci. Chiediamo da anni una riforma dei nostri percorsi di studio. La politica, il governo, i decisori ci ascoltano, ma poi non fanno nulla davvero per rendere questa professione in grado di sostenere la complessità».

Rinnovare la fiducia

Si è rotto un rapporto di fiducia? Secondo Zaltieri, negli ultimi anni la relazione tra i Servizi sociali, specialmente dell’area tutela minori, e la cittadinanza si è deteriorato: «Una responsabilità è da attribuire a una mutata e distorta narrazione dei fatti e della professionalità degli operatori che alimenta il discredito. Il malessere della cittadinanza, le fatiche quotidiane, la frustrazione di un lavoro sempre più povero esasperano le persone che si trovano senza le risorse necessarie per affrontare la complessità di ogni giorno. Una condizione che può produrre quell’aggressività che viene poi scaricata sulla nostra comunità professionale, individuata spesso come la sola responsabile delle difficoltà che si incontrano nella risoluzione dei problemi». Per rimettere al centro il benessere dei minori, «occorre lavorare per definire una nuova visione della professione a livello politico e culturale. Per questo è importante investire a livello preventivo con interventi di rinforzo dei servizi e delle forme di sostegno socioeducative strutturate rivolte ai minori e alla genitorialità fragile per incidere efficacemente sul fenomeno sempre più diffuso della povertà educativa».

Rosina aggiunge una riflessione importante: «Il rapporto di fiducia va creato e rinnovato ogni giorno. La fiducia in tutte le istituzioni, da quelle scolastiche a quelle della giustizia o della sicurezza, è complessivamente in crisi, le persone non sanno di chi e quanto possono fidarsi. Certamente per gli assistenti sociali è una situazione complicata dal fatto che sono chiamati in causa per fatti di cronaca gravi nei quali sono spesso attaccati per non aver fatto abbastanza. “Dove erano?”, ci sentiamo domandare da chi non c’è mai. Certo, a volte non riusciamo a lavorare come vorremmo, ma noi ci siamo sempre».

In apertura, fotografia di Julius Drost su Unsplash

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