Riforma della disabilità
Progetto di vita: cinque punti di distanza tra la riforma e la sua narrazione
Dal fatto che il progetto di vita non mette in discussione l'attuale offerta dei servizi alla drammatica mancanza di operatori sociali, cinque punti su cui, stando nei territori, si misura la distanza tra la realtà e ciò che vorremmo accadesse con la riforma della disabilità. Un bagno di realismo nell'esperienza e nelle riflessioni di Carlo Francescutti, direttore dei Servizi Sociosanitari dell’Azienda Sanitaria Friuli Occidentale
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Uno, il Dlgs 62/2024 non modifica in modo sostanziale e automatico l’attuale offerta dei servizi. È il primo punto su cui, secondo Carlo Francescutti, bisogna alzare il velo andando oltre le dichiarazioni politiche. Punto due, dobbiamo dirci che poiché la riforma non prevede risorse aggiuntive, un cambiamento ci sarà solo come effetto di una revisione degli equilibri attuali tra le diverse categorie di persone con disabilità: un tema che solleverà problemi. Punto tre, come si inserisce il progetto di vita nel sistema di welfare esistente? Impensabile che chi chiede un progetto di vita “passi avanti” agli altri. Punto quattro, e le persone che non hanno le competenze o le risorse per chiedere un progetto di vita? Non sarebbe meglio lavorare affinché la capacità di progettazione individualizzata, personalizzata e partecipata sia la modalità ordinaria di lavoro del welfare? Infine, il punto cinque: rendere i servizi di qualità è un problema tecnico, oltre che di risorse, ma in Italia non si trovano più operatori. Un tema che prima o poi andrà affrontato, altrimenti si alimentano aspettative che sarà impossibile realizzare.
Un’intervista a tutto tondo con il direttore dei Servizi Sociosanitari dell’Azienda Sanitaria Friuli Occidentale (AsFO), che nel triennio 2014-2016 è stato anche Coordinatore del Comitato Scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità.
Come legge il prolungamento della sperimentazione e quindi il rinvio dell’applicazione delle novità previste dal decreto legislativo 62/2024 su tutto il territorio nazionale?
Io lo giudico come un elemento di serietà. Di fronte a un processo di trasformazione che sulla carta è così importante, ci si prende il tempo di riflettere bene e a fondo. L’attuazione del Dlgs 62/2024 – lo stesso varrà per tutti i testi attuativi che ancora mancano – richiede una grande cura.
Partiamo dalla revisione della certificazione iniziale: quali sono le difficoltà per cui è un bene che ci sia più tempo?
Il tema della revisione delle certificazioni non è nuovo. Il sistema attuale è evidentemente obsoleto, tant’è che già nel triennio 2014/16 all’Osservatorio avevamo lavorato per rivederlo e questo tema compare nel testo dei Programmi d’azione ufficialmente approvati. La domanda che dobbiamo porci è tuttavia ancora pregnante: perché questa revisione all’epoca non si è fatta? Il fatto è che nel momento in cui si è provato a definire un nuovo sistema valutativo, alcune rappresentanze delle organizzazioni delle persone con disabilità hanno fatto i loro conti e alcune hanno visto che forse ci sarebbero state delle ripercussioni negative. Lo stesso tema si proporrà anche ora. Quando si dovessero cambiare sul serio le regole della valutazione e del riconoscimento della condizione di disabilità, e apportare modifiche dal punto di vista dei benefici e dei servizi a cui si ha poi diritto, si genererà lo stesso problema.
Già in passato, nel momento in cui si è provato a definire un nuovo sistema valutativo, alcune rappresentanze delle organizzazioni delle persone con disabilità hanno fatto i loro conti e alcune hanno visto che forse ci sarebbero state delle ripercussioni negative. Lo stesso tema si proporrà anche ora
Carlo Francescutti
Ma perché qualcuno dovrebbe perdere qualcosa? Un nuovo sistema di valutazione, più equo e più rispondente ai criteri dell’Icf non dovrebbe andare a vantaggio di tutti?
Mi spiace, ma qui bisogna togliere il velo ideologico. Perché facciamo un nuovo sistema di certificazione? Perché lo immaginiamo più equo e più capace di leggere le situazioni delle persone. Su questo in teoria siamo tutti d’accordo. La riforma attuale però è a costo zero, salvo gli stanziamenti per dotare l’Inps di personale aggiuntivo per fare le nuove valutazioni e qualche risorsa aggiuntiva per introdurre nei progetti di vita anche servizi non codificati nell’offerta standard. Se l’ammontare delle risorse resta quello, l’unico modo per modificare qualcosa sta nel ridefinire le modalità con cui quella cifra verrà assegnata per i nuovi casi. Detto in altri termini significa per forza che si modificherà qualcosa nei rapporti interni tra le categorie di persone con disabilità: se non cambierà niente, perché ci siamo messi a fare tutto questo lavoro? Per avere solo un avanzamento dei sistemi informatici dell’Inps? Direi che se così fosse gli esiti della riforma sarebbero certo importanti ma non quanto si immaginava quando è stata approvata la legge delega e come si continua a ripetere.
Sta dicendo che non si sa ancora, con la nuova valutazione, chi ci guadagnerà e chi ci perderà? Che lo “scopriremo solo vivendo”? Com’è possibile?
Io non sono assolutamente a conoscenza di quello che è stato valutato o di simulazioni di impatto. E la riforma varrà solo per i nuovi casi, non per chi ha già la certificazione. Però che cosa cambierà nel medio-lungo periodo non credo che ancora lo si sappia, anche perché lo si deve fare a partire dall’applicazione della nuova strumentazione valutativa che ancora non è stata messa completamente a punto.
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Scusi, ma oggi le nuove commissioni nelle province coinvolte nella sperimentazione, come valutano?
Immagino che Inps al momento continui a fare come prima, poiché mancano le nuove tabelle e i nuovi strumenti. Comunque i nuovi strumenti prima o poi dovranno arrivare. Quando questi strumenti ci saranno, potremo valutarne l’impatto.
Passiamo al progetto di vita. Si dice che mentre sul versante della valutazione non siamo pronti, qui invece tanti territori hanno ormai un’esperienza pregressa, visto che il progetto di vita ex articolo 14 della 328 si può fare dal lontano 2000, benché lo strumento finora sia stato quasi ovunque poco utilizzato…
Qui serve chiarire un punto importantissimo, altrimenti continuiamo ad alimentare narrazioni che nulla hanno a che fare con la realtà. Il Dlgs 62/2024 non mi pare modifichi in modo sostanziale l’attuale struttura del nostro sistema di welfare, che poi è il welfare locale sociale e sociosanitario: di conseguenza non modifica in modo automatico l’attuale offerta dei servizi. Al di là dell’impegno ad emanare strumenti di armonizzazione tra questa normativa e le normative locali, non c’è scritto da nessuna parte che viene messo in discussione il sistema del welfare locale con la sua offerta di servizi. Non può che essere così, dal momento che il progetto di vita di cui al Dlgs 62/2024 resta comunque un’iniziativa di parte: se voglio lo chiedo, ma come sistema pubblico non sono tenuto a farlo per tutti. Il tema cruciale è dove si trova il punto di incontro tra queste due dimensioni. Nei contesti in cui c’è già si pone un importante problema di integrazione tra le nuove previsioni di leggi e un sistema di offerta, di accesso a servizi e benefici che non può essere scardinato dal fatto che una persona oggi presenta la domanda di progetto di vita. Banalmente se c’è una lista d’attesa, quella persona passa avanti rispetto alle liste di attesa nell’accesso ai servizi rispetto a chi non ha presentato domanda di progetto di vita?
Nel decreto non c’è scritto che viene messo in discussione il sistema del welfare locale con la sua offerta di servizi. Non può che essere così, dal momento che il progetto di vita resta un’iniziativa di parte: se voglio lo chiedo, ma come sistema pubblico non sono tenuto a farlo per tutti
Quindi la difficoltà principale è l’armonizzazione tra la legittima istanza delle persona che presenta il progetto di vita e un sistema che si muove secondo logiche e modalità che – diversamente da quello che si dice nella narrazione – non vengono sostanzialmente cambiate?
Dalla lettura del Dlgs 62/2024 si intuisce che c’è un’intenzione di fare evolvere i servizi, ma è un tema implicito, che non è stato ancora del tutto svolto. Il dialogo tra Stato-Regioni dovrebbe essere approfondito su questo tema centrale. Il dato di realtà è che il sistema di welfare locale ha le sue regole e non può essere modificato dall’oggi al domani. Quando si disegna un cambiamento, i processi applicativi devono essere ben disegnati: diversamente il rischio è di fermarsi alle dichiarazioni di principio. È la stessa ragione per cui il progetto di vita ex art. 14 della legge 328 non è mai decollato in 25 anni. C’è tutta l’intenzione nei nostri funzionari e nella politica locale di adeguarsi e adottare i principi del Dlgs 62, ma vanno calati nel sistema. Il progetto di vita non cade nel “vuoto cosmico”, cade in un sistema che ha suo modo di funzionare. Bene che ci sia quindi un tempo maggiore per capire cosa fare, con intelligenza, altrimenti non vedo spazi di avanzamento progressivo dei diritti. La mia Regione, il Friuli Venezia Giulia, per esempio, già da moltissimi anni ha investito sul “fondo per l’autonomia possibile”, che affianca al finanziamento ai servizi una quota di risorse economiche date alle famiglie direttamente (per esempio per la non autosufficienza, per la salute mentale, per la disabilità, per i minori). È un fondo che vale già tanto e ha modalità di rendicontazionie estremamente flessibili. C’è quindi – e non da oggi – l’idea che accanto alle forme tradizionali dei servizi ci siano servizi meno regolati e più vicini alle intenzioni delle persone con disabilità e delle famiglie, una disponibilità per trovare accomodamenti che oggi non trovano spazio nell’offerta standard dei servizi. Tutto questo ha regole d’accesso, con modalità di individuazione dei beneficiari senza bisogno di fare richiesta di progetto di vita. Questo tempo aggiuntivo deve servire a capire bene come nei sistemi di welfare locale si possa fare questo lavoro di atterraggio del Dlgs 62/2024, disinnescando il rischio molto alto che si alimenti la crescita del contenzioso
Che cosa intende?
Che il welfare deve garantire sostegni per tutti, indipendentemente dal censo o dalle capacità organizzative. Non possiamo pensare che i cittadini più organizzati, con più risorse economiche e culturali, possano avere un trattamento diverso dagli altri. Il welfare non si dovrebbe fare con le sentenze e non dovrebbero essere i giudici a disegnare il sistema. Guardiamo per esempio l’inclusione scolastica: siamo pieni di sentenze che riconoscono agli studenti un considerevole numero di ore di sostegno, ma poi non abbiamo insegnanti di sostegno, spesso quelli che ci sono non sono qualificati e l’inclusione scolastica non mi pare stia vivendo una stagione brillante.
Ma il tema della riforma non è esattamente offrire a tutti – attraverso il sistema di welfare, chiamato a farlo attraverso il progetto di vita – una progettazione personalizzata?
Se fosse così bisognava scrivere una legge in cui fosse modalità ordinaria del sistema di welfare lavorare per progetti personalizzati, integrati sul piano sociale, sanitario ed educativo. Se avessimo davvero portato dentro il welfare ordinario questa capacità di progettazione individualizzata, personalizzata e partecipata, ci servirebbe ancora un progetto di vita su istanza del singolo? Il welfare locale questa progettazione individualizzata, personalizzata e partecipata dovrebbe essere capace di farla per tutti, perché questa progettazione dovrebbe essere un diritto di tutti.
E i territori sono in grado di fare universalmente progettazione personalizzata?
Io credo fortemente che sia possibile. Volendo restare nell’ambito della mia esperienza quotidiana, cito ancora la mia regione che ha fatto la scelta di rafforzare il sistema sociosanitario pubblico nella sua capacità di dialogo con gli enti di Terzo settore al fine di garantire un progetto personalizzato come istanza e funzione pubblica fondamentale (LR 22/2019 e LR 16/2022). Forse invece qualcuno pensa che i sistemi di welfare non siano in grado di fare un salto di qualità in questa direzione e quindi che sia meglio andare verso una voucherizzazione spinta, spostando le risorse sulla persona con disabilità, che poi sceglierà in prima persona dove cercare il servizio che le serve, con un rapporto diretto tra il beneficiario e l’ente erogatore del servizio. Non sto dicendo che nel Dlgs 62 sia indicata questa strada, ma se non è l’una è l’altra… Non è che esista una verità, ma mi pare che nel dibattito attuale manchi un’esplicitazione dei modelli di welfare a cui ci si rifà: sarebbe opportuno capire meglio dove vogliamo andare e qual è l’idea del welfare del futuro.
C’è altro da aggiungere?
Sì, vorrei dire ancora una cosa. Rendere i servizi di qualità è un problema tecnico, oltre che di risorse. Non troviamo operatori, spesso quelli che troviamo sono poco qualificati (torno a fare l’esempio del sostegno), mancano i professionisti. Le faccio un esempio: ci sono sentenze del Tar che inquadrano gli interventi Aba come livelli essenziali di assistenza e quindi prescrivono che il minore con autismo debba avere 25 ore settimanali di Aba. Intanto non si fa presente la necessità di valutare l’appropriatezza dell’intervento e la necessaria mediazione clinica nella sua prescrizione. Ma anche se fosse appropriato e se anche avessimo le risorse, rischiamo di non avere professionisti abilitati o di averli solo per qualcuno. Allora, com’è possibile immaginare che parallelamente a un lavoro di individuazione delle risorse non si faccia un lavoro significativo di crescita della qualità professionale o di reclutamento di operatori? Come direttore dei servizi sociosanitari nella mia azienda mi trovo nella condizione di avere le risorse ma di non poter aprire servizi perché i soggetti del Terzo settore non riescono a trovare educatori professionali, terapisti occupazionali, tecnici della riabilitazione psichiatrica… O se li trovano il turnover è elevatissimo. Non è solo questione di quattrini, c’è un deficit importante di competenze professionali. Qualcosa dovremmo dirci anche su questo, per essere seri. Bisogna che questi temi trovino la loro declinazione pratica. La riforma delle norme in tema di disabilità era necessaria, ma bisogna con maggior forza riportare al centro dell’attenzione il tema del sistema d’offerta e delle competenze. In caso contrario il rischio è che si inneschino enormi aspettative a fronte di cambiamenti reali insoddisfacenti.
In apertura, manifestazione a Roma, foto LaPresse
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