Mondo
Professione pericolo
Ben 31 giornalisti uccisi. Più 15 loro collaboratori.
Chi oggi, tra i giornalisti occidentali presenti in Iraq, non sogna di descrivere ai propri lettori ciò che veramente accade nel Paese più pericoloso del pianeta? «Ovviamente tutti», dà per scontato il responsabile dell?informazione di Reporters senza frontières (Rsf) Jean François Juliad nel giudicare un conflitto che ha provocato la morte di ben 31 giornalisti e 15 loro collaboratori, ai quali si somma un numero spropositato di feriti e rapiti, tra cui ovviamente la nostra Giuliana Sgrena. «è il prezzo più alto mai pagato dalla nostra professione», sentenzia a Vita Juliad, secondo il quale «l?Iraq, a differenza di Paesi come l?Afghanistan, la Cecenia oppure il Libano degli anni 80, dove i giornalisti erano a alto rischio di rapimenti e uccisioni, segna una rottura senza precedenti per via di un caos che perdura da ben due anni e che impedisce ai giornalisti, di qualsiasi nazionalità o categoria professionale essi appartengono, di compiere il proprio lavoro. I giornalisti non sono più percepiti come testimoni neutri, ma come combattenti al pari delle parti in conflitto».
Due scuole a confronto
Emblematico è il caso di Mazen Dana, cameraman dell?agenzia Reuters, ucciso alla periferia di Bagdad il 17 agosto 2003 da un soldato americano che aveva confuso il suo teleobiettivo con un lanciarazzi. Sul fronte opposto, è la triste sorte di Enzo Baldoni a ricordarci la linea di demarcazione quasi invisibile che separa un reporter di guerra dai soldati originari dello stesso Paese (in questo caso l?Italia) appartenente alla coalizione occupante. «Tuttavia», tiene a sottolineare Juliad, «i rapimenti dei francesi Chesnot, Malbrunot e Aubenas mettono a dura prova la logica secondo la quale a rischiare di più sarebbero i giornalisti appartenenti alle nazioni implicate nella guerra».
A questa certezza matematica seguono però molti altri interrogativi: chi sono i giornalisti più a rischio? E ancora: è possibile fare giornalismo d?inchiesta in un contesto così deleterio come quello iracheno? «Nonostante ormai vengano inviati solo professionisti di grande esperienza, tutti i giornalisti sono in pericolo», sostiene Juliad, «ma alcune categorie come i cameramen e i fotografi sono più a rischio perché dotati di materiale tecnico che li rende maggiormente visibili».
Un discorso che però non vale per tutti. «Esiste una differenza sostanziale tra i giornalisti francesi o italiani da un lato, e i loro colleghi statunitensi e inglesi». E a farla, la differenza, è la sicurezza. Che in Iraq «significa per un giornalista andare in giro con giubbotti anti proiettile, un numero consistente di guardie del corpo e mezzi super blindati». Questa opzione «è stata prescelta dalle redazioni angloamericane, tra le quali spicca quella della televisione statunitense Nbc che ha fatto costruire stanze blindate nell?albergo in cui risiedono i suoi giornalisti». Al contrario, «francesi e italiani si rifiutano di investire soldi in mezzi di sicurezza costosissimi. Per alcuni è una questione di principio, per altri una necessità. In entrambi i casi però, c?è la coscienza che girare per le strade con 15 guardie del corpo ti limita nei contatti con le persone, pregiudicando reportage degni di questo nome».
Per la Bbc è enduring security
Tra compiere inchieste sul terreno ad alto rischio e produrre informazione ?confezionata? in tutta sicurezza, il caporedattore dei servizi internazionali della Bbc, Jonathan Baker non ha dubbi: «La sicurezza è una prerogativa assoluta». La sua è una risposta sin troppo scontata se si pensa che il prestigioso organo d?informazione britannico ha perso per strada un Premio Pulitzer (il fotoreporter iraniano Kaveh Golestan) e un collaboratore curdo, e incassato il ferimento di due altri suoi giornalisti. Non è quindi un caso se «il nostro staff, composto da una dozzina di professionisti, risiede in appartamenti situati presso la Green Zone a Bagdad e protetti da personale di sicurezza locale». Già, la sicurezza.
«I nostri giornalisti non possono uscire senza le loro guardie del corpo e i loro movimenti sono estremamente limitati. Per alcune zone come Fallujah, giudicate off limits, ci vuole la scorta militare», dichiara a Vita un Baker molto fermo nel ricordare che «la sicurezza del nostro team è sotto l?intera responsabilità di Londra». Di reportage, se ne parla poco. «Quelli compiuti l?anno scorso a Najaf e contemporaneamente a Karbala sono stati frutti di circostanze eccezionali». Più che di enduring freedom bisognerebbe parlare di enduring security. «Con costi molto elevati», come ci conferma – senza fornire dati precisi – il caporedattore della Bbc World news, «ma che riteniamo essenziali dal momento in cui faremo qualsiasi cosa per proteggere il nostro staff». Come a dire, in Iraq la libertà di espressione ?occidentale? fa fatica ad alzare la voce.
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