Economia

Prodi: ripartire dal welfare per favorire lo sviluppo

L’ex premier Romano Prodi spiega perché l’assioma secondo cui «la lunga stanchezza dell’economia dei paesi europei, tra i quali l’Italia, sia l’inevitabile conseguenza delle eccessive spese sociali» sia profondamente sbagliato

di Romano Prodi

Si ripete ormai in modo ossessivo che la lunga stanchezza dell’economia dei paesi europei, tra i quali l’Italia, sia l’inevitabile conseguenza delle eccessive spese sociali.  Il messaggio che ci viene inviato ogni giorno è che l’Europa non può avere un futuro perché, con il 7% della popolazione mondiale e producendo il 20% del Pil del pianeta, copre il 40% della spesa sociale di tutta l’umanità. Un messaggio che si fonda sul presupposto che la spesa sociale sia improduttiva e che il welfare-state sia quindi il nemico dello sviluppo.

Questo ragionamento, ormai diventata dottrina comune, è profondamente sbagliato, perché parte dall’ipotesi che tutto quanto è gestito dai mercato sia per sua natura più efficiente di ogni decisione che passa attraverso le strutture pubbliche. Ogni sforzo per migliorarne il funzionamento sarebbe perciò fatica sprecata. A questo proposito, per chiarire meglio le cose, vorrei porre un semplice interrogativo in riferimento a un settore del welfare che è stato giustamente messo sotto la lente di ingrandimento per i suoi sprechi: il settore sanitario.

La domanda è semplice fino a poter sembrare provocatoria. Partiamo dai fatto che in Italia, dove il sistema sanitario è universale, si spende in sanità (sommando pubblico e privato e contando tutti gli sprechi) una percentuale intorno al 9% del Pil, mentre negli Stati Uniti (dove il sistema è eminentemente privato e non ancora universale) la spesa è intorno al 18%.

E veniamo alla domanda: perché in Italia si vive in media quattro anni più che negli Stati Uniti pur con una spesa sanitaria che è, in percentuale, la metà di quella americana? Non credo che la differenza sia da attribuirsi alla pizza o alla dieta mediterranea ma piuttosto a qualcosa che abbiamo in più nella prevenzione e nella cura, un qualcosa che solo un sistema universalistico può offrire, anche in presenza dei difetti e delle mancanze che ogni giorno siamo costretti a constatare.

Un ragionamento che non possiamo probabilmente applicare al caso della scuola dove, per quello che valgono in questo campo i confronti internazionali, spendiamo meno dei paesi con una presenza inferiore della scuola pubblica, ma abbiamo prestazioni molto inferiori.

Anche in questo caso tuttavia abbiamo l’eccezione della scuola elementare dove, ad una spesa ridotta, corrisponde un livello didattico ritenuto superiore alla media. Con questi esempi volutamente semplificati voglio sottolineare che l’efficacia della spesa non dipende dal fatto che essa passi attraverso un canale pubblico o privato, ma dall’efficacia dei modelli organizzativi applicati. Quanto all’influenza della spesa pubblica sulla crescita occorre tenere conto degli effetti positivi di un sistema universalistico non solo nel prolungare la vita media ma nel fare aumentare le potenzialità di crescita dell’economia, estendendo a tutti i cittadini l’accesso generalizzato alla cura e all’istruzione. Questo soprattutto in un mondo in cui, non solo a causa della crisi, il famoso «ascensore sociale» funziona sempre meno.

Ci dobbiamo a questo punto chiedere quali siano le ragioni di una condanna sempre più generalizzata del sistema di welfare.  Tale condanna non deriva da una sua fatale inefficienza ma è conseguenza del fatto che la spesa sociale non viene sostenuta da chi gode direttamente dei suoi servizi ma da tutti i cittadini attraverso il sistema fiscale. Le imposte, come è risaputo, sono sempre state impopolari ma lo sono diventate ancora più oggi. Questo non solo per gli sprechi e le malversazioni di una sostanziosa parte del settore pubblico, ma perché ci siamo completamente disabituati a fare il confronto tra il vantaggio di godere di migliori servizi e gli svantaggi di un aumento delle imposte. Le tasse sono diventate un male assoluto per definizione, per cui nessun politico ne può parlare in campagna elettorale se non per prometterne la diminuzione, indipendentemente dal fatto che essa sia realisticamente possibile.

Naturalmente l’opinione dei cittadini si inverte dopo le elezioni, perché ogni ipotesi di diminuzione dei servizi allo scopo di alleviare le imposte trova un’opposizione ancora più forte di quella che si aveva nei confronti dell’aumento delle imposte nel corso della campagna elettorale. Viviamo quindi in una perpetua contraddizione in conseguenza della quale il welfare resta l’ultima àncora di salvezza per i cittadini ma è, nello stesso tempo, oggetto di critiche sempre più pesanti fino a attribuire alla sua diffusione la causa dei crescenti squilibri dei bilanci pubblici e della minore crescita dei sistemi economici.

Naturalmente c’è welfare e welfare. Vi sono sistemi raffinati come quelli del nord Europa nei quali le imposte elevate si traducono in maggiore salute e cultura di tutti i cittadini e quindi in maggiore equità e maggiore crescita e sistemi nel quali il welfare pubblico viene gravato da sprechi che pesano negativamente sulla crescita e mantengono categorie parassitarie.

Il miglioramento non si realizza col taglio della spesa sociale, ipotecando così il nostro futuro e lasciando che gli stessi servizi vengano forniti dal mercato ad un minore numero di persone ed a costi più elevati. La bussola deve essere correttamente rivolta verso il nostro nord dove i governi, siano essi di centro destra o di centrosinistra lottano contro gli sprechi non per distruggere ma per mantenere e rendere più efficiente lo stato sociale.

Lo stato sociale rimane la più grande conquista del secolo scorso. Anche se oggi ha bisogno di miglioramenti, esso non può essere sostituito da sistemi alternativi che risultano più costosi e meno efficaci nel promuovere identiche condizioni di partenza per tutti i cittadini. Osservo con ragionata tristezza che la giustizia sociale sta andando fuori moda, mentre dovrebbe essere l’obiettivo primario di ogni scelta politica.
 
 da Il Messaggero  del 14/12/2014

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