Nell’occhio del ciclone sonico, in quella stasi che tocca lo zenith l’artista si rivolge al pubblico: “mi fa schifo sai? l’insensibilità…”. E’ la citazione di un verso guida della loro ultima produzione, un atto di accusa all’accumulazione senza senso dell'(ir)realtà virtuale. Virtuale che però deborda clamorosamente anche nel face to face della performance live dove il lato debole è proprio il pubblico, clamorosamente sodoppiato tra un manipolo che vuole salire sul palco e partecipare direttamente (fisicamente) all’evento e una massa che fa fatica a mettersi in un rapporto minimo di empatia, quasi come spettatori passivi di un qualsiasi spettacolo televisivo o distratti downloader dall’ennesima canzone pirata. Eppure l’artista è davvero bravo, dotato di grande qualità, in particolare di quella “esperienza” che il registra teatrale Peter Brook nel Corriere di domenica individua come il valore principale dell’opera. “Non credo ai maestri – dice – Credo solo all’esperienza. Le idee di per sé non ci portano da nessuna parte, ma i frutti dell’esperienza vissuta possono essere spartiti, condivisi”. E’ dura però. E non solo per chi opera alla luce degli spotlights, ma anche per chi fa lavoro sociale. Perché è facile evocare il protagonismo dell’utenza, l’empowerment dei beneficiari, il ruolo del consum-attore, il fatto di votare col portafoglio e via discorrendo. Ci vuole, nella realtà, investimento, pazienza e, non ultimo, un pò di sano pragmatismo. Consapevoli del fatto che con tutta probabilità sarà comunque una minoranza – attiva, come quella descritta da Serge Moscovici – che potrà diventare parte attiva, capace cioè di intervenire in sede di coproduzione e gestione. Forse servirebbe uno sforzo strategico diverso, teso a qualificare chi semplicemente vuole “far da pubblico”, fornendo ad esempio le informazioni e gli strumenti giusti per valutare e per condividere i giudizi. Perché anche fare da spettatore è un mestiere.
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