Welfare

Privato sociale, batti un colpo se ci sei

Da protagonista (annunciato) della riforma del welfare state, il privato sociale rischia già di uscire di scena. Intervista a Pierpaolo Donati.

di Francesco Maggio

Che il welfare state sia in crisi è una questione vecchia. Che lo siano anche i modelli di welfare regionali è una questione molto preoccupante. E, per certi versi, inaspettata. Perché proprio nelle Regioni, da una quindicina d?anni, si sperimenta il welfare mix: un po? di Stato e un po? di privato sociale. Laddove l?amministrazione pubblica non ce la fa perché non ha più soldi, intervengono gli enti non profit. Ma l?esperienza ha dimostrato che questi di solito devono solo obbedire a bacchetta. Hanno margini di autonomia ristrettissimi, il pubblico detta gli standard, li mette non di rado finanziariamente alle corde con i bandi al massimo ribasso e spesso finisce con ?umiliarne? motivazioni e slanci ideali. Insomma, sta fallendo un modello che sembrava la panacea di tutti i mali. Né sembra profilarsene all?orizzonte uno nuovo. A meno che, cominciando a sciogliere un po? di nodi giunti al pettine, certi termini, certe definizioni recuperino una valenza identitaria. E, quindi, ritornino a individuare orizzonti di senso. E di azione. Ne è convinto Pierpaolo Donati, ordinario di sociologia all?università di Bologna, autore, insieme a Ivo Colozzi, del recente Il privato sociale che emerge: realtà e dilemmi (il Mulino), che in questa intervista in esclusiva a Vita spiega perché. Vita: Professore, qual è il principale dilemma che oggi bisogna sciogliere? Pierpaolo Donati: In realtà i dilemmi sono tanti. Ma il primo, senza dubbio, riguarda il privato sociale. L?espressione, quando io l?ho lanciata circa 25 anni fa, per molti aspetti coincideva con quella di terzo settore. Oggi non più. Il privato sociale riguarda le reti di relazione di chi vuole fare qualcosa per la società ma non ha ancora un?idea precisa di come riuscirà a concretizzare i suoi intenti. Questo coincide solo in parte con il non profit perché il terzo settore nel frattempo ha incluso anche delle realtà che non sono solamente di tipo pro-sociale, ma che stanno sul mercato, producendo beni e servizi. Il privato sociale ha una cultura in cui la mission è un elemento fondamentale. Per mission si intende l?idea di fare qualcosa per gli altri a prescindere dal proprio interesse. Il terzo settore è a metà strada tra mercato e privato sociale. Vita: Perché ritiene che oggi sia urgente sciogliere questo dilemma? Donati: Perché la società si muove più in fretta della legge. La società esprime bisogni di relazione tra persone che le legislazioni non riescono tempestivamente a ?interpretare?. E quindi bisogna capire la dinamiche generative del privato sociale per individuare quali norme di legge, modalità di regolazione economica siano le più adeguate per non far perdere questa mission iniziale che il privato sociale conserva all?interno del terzo settore. Vanno eliminate le ipocrisie di certe organizzazioni che si spacciano per privato sociale e non lo sono. E bisogna evitare le strumentalizzazioni che lo Stato centrale e le sue articolazioni territoriali fanno del privato sociale, perché da 10-15 anni c?è una forte tendenza da parte delle amministrazioni locali a utilizzare il privato sociale per esternalizzare i propri servizi, sostituendo i servizi pubblici con agenzie di privato sociale che finiscono poi per essere colonizzate. Vita: Per questo sono andati in crisi alcuni modelli regionali di welfare come, per esempio, quello dell?Emilia Romagna? Donati: Già, perché c?è stata una rapida crisi di un modello che si era affermato negli anni 90: il modello del cosiddetto welfare mix. Un mix tra pubblico e privato che però in realtà si è tradotto nell?utilizzo distorto che la pubblica amministrazione ha fatto del privato sociale, tenendolo ?sotto controllo?. Vita: Come si va oltre il welfare mix? Donati: Con il welfare societario. Che non è la welfare society che ruota attorno al principio di sussidiarietà. La welfare society è un?espressione usata in contrapposizione a quella di welfare state, ma è ancora indifferenziata perché l?80% delle amministrazioni locali intendono la sussidiarietà come una forma di collaborazione con il pubblico. Ma in questo modo non si fa vera sussidiarietà. Il modo corretto di intendere la sussidiarietà è quello per cui gli enti locali non devono chiamare i corpi intermedi a tappare buchi ma devono invece semplicemente creare le condizioni affinché questi soggetti facciano quello che vogliono, debbono e possono fare autonomamente. Lo Stato centrale deve cedere dei poteri, non può più imporre i suoi standard. Da qui la soluzione societaria che io sostengo, una soluzione di governance, non di government. Non è una questione di governo per cui c?è un soggetto che fa da sintesi, ma un auto coordinamento di tutti i soggetti, pubblici e privati, in cui ognuno svolge la propria funzione, rispettando le prerogative dell?altro. Vita: Quanto è ancora ?intricato? il rapporto tra pubblico e privato sociale? Donati: Molto. Innanzitutto perché in Italia il primato della politica è ancora dominante. Il 70-80% dei mass media pensa che la politica debba guidare tutto. Questa è una cultura politica e statalista che ci portiamo dietro dallo Stato assoluto e che facciamo fatica a scrollarci di dosso. La maggior parte delle persone continua a pensare sempre in termini di Stato. Ma anche il privato sociale deve fare molti passi in avanti: nella professionalità interna, nella capacità di auto organizzarsi, nel farsi capire dal mondo politico. Dal punto di vista sociologico questo significa rendere più riflessivo il privato sociale. Il privato sociale è pieno di motivazioni ma non è riflessivo. Una maggiore riflessività interna significa riapplicare continuamente le proprie motivazioni ai risultati ottenuti. Vita: Come vede l?evoluzione dell?impresa sociale? Donati: Le imprese sociali sono cresciute molto negli ultimi tempi e il fatto di non avere la legge che le riconosce è un fatto negativo. Ma a volte, ci tengo a sottolinearlo, anche l?assenza di una legge può far crescere la società civile. Basti pensare alla vicenda, negli anni 80 delle cooperative sociali che sono cresciute enormemente senza una legge e quando poi questa è arrivata si sono, in molti casi, burocratizzate.


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