Educazione

Prevenire la violenza del branco? Si fa solo con l’inclusione

A seguito dello stupro di gruppo avvenuto a Catania, Elisa Furnari, presidente della fondazione Èbbene, riflette sulla necessità di puntare su un sistema sociale ed educativo che dia alternative ai più giovani, senza sviluppare una paura del diverso e senza trascurare la sicurezza delle città

di Veronica Rossi

Fatti tragici come lo stupro di gruppo di una tredicenne avvenuto il 30 gennaio nei bagni di Villa Bellini a Catania scuotono profondamente la società civile. E la inducono a interrogarsi su cosa potrebbe essere stato fatto in più – o in modo diverso – per cercare di evitare una violenza così brutale. Secondo Elisa Furnari, presidente della fondazione Èbbene, rete nazionale di prossimità con sede proprio a Catania, serve puntare di più sull’educazione dei ragazzi, italiani e stranieri, e sulle opportunità per i più giovani, senza cadere nella tentazione di chiudersi nei confronti del diverso.

Presidente, qual è la sua sensazione dopo i tragici fatti accaduti a Catania?

Parto da un dato di fatto: è una sconfitta, soprattutto per chi pensa i sistemi di educazione. Io ho alcune paure. La prima è che si entri di nuovo in una fase in cui si possa acuire la diffidenza verso il diverso, che la società si incattivisca e ci si concentri, in una notizia come questa, sul fatto che i ragazzi fossero egiziani, stranieri. La seconda paura è legato al fatto che questo sia il sintomo di un sistema di accoglienza all’interno del nostro Paese che ha sempre più bisogno di lavorare non solo sull’accoglienza materiale, ma su processi e progetti di educazione e di inclusione dei ragazzi.

Elisa Furnari, presidente Fondazione Èbbene

Che invece al momento vengono trascurati?

Si respira meno l’impatto educativo dei sistemi di accoglienza. Non basta avere dei bravi educatori o delle organizzazioni che lavorano seriamente. Serve vivere in un contesto i cui l’inclusione si basi sulla volontà precisa di educare e accogliere chi viene da una situazione di difficoltà. Sicuramente, nessuno di questi ragazzi viene da un percorso di vita personale e familiare sereno. Ognuno avrà i propri traumi e le proprie sconfitte da combattere. Probabilmente sono arrivati a questo livello – a cui comunque nessuno mai dovrebbe arrivare – perché c’è qualcosa nel loro passato che il sistema non è riuscito a intercettare o non ha avuto il tempo di intercettare. Non bisogna generalizzare, ma capire la storia di ogni ragazzo, da dove viene, cosa gli è successo e qual è il suo vissuto familiari. Dovremmo sapere anche che commenti e che analisi sono state fatte dagli operatori che li hanno accolti, altrimenti facciamo un grande caos e ci concentriamo solo sul fatto che sono egiziani. Poi c’è anche il tema del branco.

Cioè?

Il branco incattivisce anche le persone che da sole non sarebbero pericolose. Mi fa molta paura questa esecuzione in gruppo, così come mi spaventa il tema della sicurezza nelle nostre città. Catania è una città meravigliosa, con gente meravigliosa, ma mi ho timore del fatto che in una grande villa, in un luogo centrale, il sistema di videosorveglianza non fosse attivo. Ho letto che è stato fatto ricorso alle telecamere private dei negozianti vicini. Il problema della sicurezza va attenzionato e affrontato in due modi, con le infrastrutture e con l’educazione. Siamo davanti a una grande questione educativa, che coinvolge sia stranieri che italiani, come è accaduto qualche mese fa nel caso dello stupro di Palermo (ne abbiamo parlato qui, ndr). Vorrei capire quanto in questo momento il nostro Paese stia investendo su questo, non con interventi spot, ma con interventi sistemici del Terzo settore e delle agenzie educative istituzionali, come la scuola. I ragazzi che oggi hanno 16 o 17 anni sono quelli che si sono fatti due anni chiusi in casa con il Covid-19, iperstimolati dallo strumenti digitale e con relazioni completamente falsate.

E come possiamo fargli recuperare la dimensione sociale?

Sicuramente rafforzando le azioni educative inclusive, non solo per gli stranieri, ma anche per gli italiani, quindi rimettendo al centro della politica pubblica del Paese il tema dell’educazione dei ragazzi. Lo si può fare attraverso una serie di strumenti, come le scuole aperte o il suscitare interesse con attività sportive e culturali più accessibili e gratuite. Se andiamo a mappare queste attività, vediamo che al Sud è un disastro. Se pensiamo a quanti eventi culturali e ricreativi sono gratuiti nelle città, è un disastro. Se vediamo quanta formazione indispensabile non è gratis, è un disastro. E secondo me non è un caso che gli episodi di violenza accadano spesso nelle grandi città dove il tessuto sociale, in qualche modo, si sfilaccia.

È necessario quindi che la politica si interessi di più ai ragazzi e alle loro necessità.

Bisogna ripensare le città e le comunità, quindi, a dimensione dei più giovani e delle famiglie; servirebbe anche interrogare chi veramente questo lavoro lo fa e quindi capire – nel caso specifico, per esempio, dei ragazzi immigrati – che criticità riscontra chi lavora nei servizi di accoglienza e cosa non funziona. Ma con la volontà di accogliere, non di non accogliere.

La foto in apertura è di Manuela Di Domenico per Agenzia Sintesi


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