Welfare

Prendiamoci cura di chi ci cura, altrimenti salta tutto

Quello che il personale sanitario sta vivendo è pazzesco: non c’è solo stanchezza per i turni raddoppiati, i solchi delle mascherine sugli zigomi, le mani scartavetrate dai mille lavaggi. C’è angoscia, inquietudine, sofferenza, paura. «In una situazione come questa è fondamentale prendersi cura di chi cura», dice Mirko Damasco, presidente di Salvagente Italia. Da oggi l’associazione mette a disposizione un numero e una mail per offrire al personale sanitario impegnato nella gestione dell’emergenza Coronavirus un servizio psicologico gratuito, per evitare il rischio burnout

di Sabina Pignataro

Nella medicina tradizionale cinese esiste il concetto di neigong, indica che non si può curare se non si rimane sani. «Anche noi – spiega Mirko Damasco, presidente dell’associazione Salvagente Italia – pensiamo che sia fondamentale prendersi cura di chi cura. Per questo oggi lanceremo un nuovo progetto, offrendo un supporto psicologico gratuito per aiutare tutti gli operatori sanitari attivamente impegnati dall'emergenza coronavirus, che lavorano notte e giorno per gli altri e non hanno più spazio per sé».

I medici, gli infermieri, i soccorritori, i tecnici di centrale e gli operatori di ogni provincia italiana potranno contattare in maniera anonima l’associazione, ed avere – entro 24 ore – un colloquio gratuito tramite skype e whatsapp con uno psicoterapeuta per affrontare al meglio questo periodo. Il numero di telefono è 3440691479; la mail serviziopsicologia@salvagenteitalia.org. Gli psicologi e gli psicoterapeuti che volessero rendersi disponibili per offrire dei colloqui possono contattare l’associazione allo stesso numero di telefono e mail.

Quello che il personale sanitario sta vivendo è pazzesco: non c’è solo stanchezza per i turni raddoppiati, triplicati senza limiti di orari, i solchi delle mascherine sugli zigomi, le mani scartavetrate dai mille lavaggi, il sudore appiccicato sulla schiena per il calore trattenuto dalle tute. «Oltre i segni fisici, c’è angoscia, inquietudine, sofferenza, un mix di impotenza e di onnipotenza insieme. Ma forse più di tutte, c’è la paura», racconta un’anestesista dell’ospedale Sacco di Milano che preferisce rimanere anonima. «La paura di un virus poco noto, che sembra mutare le proprie caratteristiche di giorno in giorno, colpendo pazienti sempre più giovani e sempre più gravemente». E poi «la paura di non avere a disposizione le competenze necessarie, i presidi necessari, gli spazi necessari, le forze necessarie».

Ovunque si respira incertezza. «È come un terremoto: scosse continue e non sai quando finirà», prosegue la dottoressa. «Per questo vivi in costante allerta, non molli la presa, perché sai che non ti puoi distrarre. Ogni momento richiede cuore, coraggio, pazienza, sangue freddo, la capacità di rimanere concentrati, di fare bene». È dura, dice, «viviamo ad un ritmo ingestibile. Strutturalmente ma anche umanamente».

C'è la paura di un virus poco noto, che sembra mutare le proprie caratteristiche di giorno in giorno, colpendo pazienti sempre più giovani e sempre più gravemente. Ma anche la paura di non avere a disposizione le competenze necessarie, i presidi necessari, gli spazi necessari, le forze necessarie. È come un terremoto: scosse continue e non sai quando finirà

medico anestesista

Alcuni dei medici, degli infermieri e degli operatori che oggi sono in prima linea sono abituati a turni estenuanti, a lunghe guardie, a lavorare la notte, a Natale, Pasqua e nei week end. In condizioni normali di lavoro, pur tra le mille difficoltà organizzative, questi professionisti avrebbero il tempo per ricaricare le pile e cominciare da capo un nuovo giorno di normale amministrazione. Ma quello che stanno vivendo da tre settimane a questa parte non ha nulla a che vedere con una normale amministrazione: lo sforzo che si richiede loro è enorme, il flusso di pazienti da gestire è in continua crescita, le responsabilità e rischi sempre più forti, il personale è insufficiente. Alcuni colleghi sono stati contagiati, altri sono in quarantena. E chi può, chi sta bene, lavora per tre.

«Questa sensazione di emergenza costante – aggiunge l’anestesista – ti consuma i muscoli, gli arti e il corpo. Si mangia, a piccoli morsi, anche la mente, l’anima». E così, sotto tutto, si accumulano emozioni ingarbugliate, sfocate. Non c’è tempo, non c’è spazio per pensare a se stessi. Il piano personale è sospeso, talvolta soffocato. Nelle terapie intensive, tra aghi, respiratori, macchinari, led lampeggianti e tubicini, c’è un silenzio che urla dolore e che è interrotto solo dal dagli allarmi che suonano ogni volta che c’è un’alterazione dei parametri vitali nei pazienti. E nei momenti di pausa solo il corpo, talvolta, si ferma, ma non la mente fra i pensieri sempre divisi fra ciò che si è lasciato in reparto ed i famigliari, che sono lontani. Ci sono medici, infermieri e ausiliari che non possono nemmeno uscire dai reparti infetti. Altri che scelgono di non tornare a casa dalle proprie famiglie, per paura di infettare, anche inconsapevolmente, compagne, compagni e figli. Restano in ospedale, comunicano con i propri cari via skype o whatsapp.

In questi giorni, quando vediamo infermieri e medici in televisione, sentiamo parole come paura, angoscia e ansia uscire dalla bocca di chi, normalmente, consideriamo invincibile. E che invece invincibile non è.

«Anche noi medici, e in generale tutti noi operatori sanitari – spiega Claudia Ravaldi, medico psichiatra, specializzata in psicotraumatologia e fondatrice di CiaoLapo onlus – siamo “persone”, con tutto ciò che questo comporta, in materia di bisogni, di umori e di timori».

Ad animarli c’è una grande dedizione e voglia di fare bene, di prendersi cura e migliorare le condizioni di salute del prossimo e della comunità. Ma questa dedizione, di fronte ad una pandemia che ha confini geografici e temporali indefiniti e infiniti, alla lunga potrebbe non bastare. «Il rischio – spiega Ravaldi – è che tutti loro esauriscano le risorse, fisiche, psichiche ed emotive, assai prima che queste risorse possano essere ripristinate. Il burnout e il disturbo post traumatico da stress sono due dei possibili esiti di un’emergenza vissuta senza pensare alla salute di chi cura». Ravaldi cita la locuzione latina “Medice, cura te ipsum”, che tradotta significa “Medico, cura te stesso”: «un imperativo – dice – che ha il suono di una preghiera. Abbi cura di te. E tutto andrà nel migliore dei modi possibili».

Il rischio è che tutti loro esauriscano le risorse, fisiche, psichiche ed emotive, assai prima che queste risorse possano essere ripristinate. Il burnout e il disturbo post traumatico da stress sono due dei possibili esiti di un’emergenza vissuta senza pensare alla salute di chi cura

Claudia Ravaldi, medico psichiatra

«Questa scoperta della fragilità, o se volete dell’umanità del personale sanitario – commenta Mirko Damasco – Salvagente l'ha fatta anni fa quando, contro tutti, sistema sanitario compreso, abbiamo dato il via al progetto di supporto psicologico per personale sanitario». Per tre anni, alla Clinica de Marchi di Milano, una psicologa specializzata ha offerto supporto ai medici della TIP, la terapia intensiva pediatrica, con il sostegno dell’associazione. Da questa esperienza è nato poi un libro “Turno di Parola” (FrancoAngeli, 2018), che è il racconto dell’esperienza di sei rianimatori coinvolti. Ora, un altro progetto sta per partire nella TIN, la terapia intensiva neonatale, della Macedonio Melloni, il primo ospedale in Italia interamente dedicato alla salute della donna.

Entrambi sono progetti che non si limitano a supportare chi lavora nelle terapie intensive dal punto di vista psicologico, ma che puntano anche ad insegnare loro come comunicare tra colleghi, con i pazienti e con i famigliari. «Saper comunicare dovrebbe essere considerato importante tanto quanto saper intubare», dice Damasco. «Perché il dolore fa paura ed è ancora più spaventoso quando non parla chiaro». Per questo, aggiunge «da tempo non facciamo che ribadire che la salute psicologica degli operatori, la loro capacità di gestire lo stress e la loro capacità di comunicare sono una competenza professionale da acquisire e sono parte della cura. È una competenza che deve entrare nelle università e che deve diventare pratica quotidiana, perché oggi, averla avuta, avrebbe migliorato migliaia di vite: quella delle famiglie dei pazienti e quelle degli operatori che dopo questa esperienza avranno bisogno di molto aiuto».

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