Mondo

#PrayForParis e anche per l’Africa

di Cecile Kyenge

“Bisognerebbe sempre concedere al nostro prossimo un frammento di verità e non dire che tutta la verità appartiene a me, al mio Paese, alla mia razza, alla mia religione”. Quelle di Amadou Hampâté Bâ sono parole profonde e nello stesso tempo simboliche. Simboliche perché scritte da uno dei più grande intellettuali africani contemporanei, nato e cresciuto in Mali, un paese colpito pochi giorni fa da un attacco efferato, l’ennesimo compiuto in queste ultime settimane dai terroristi islamici sul continente africano. Profonde perché interpellano ognuno di noi sui rischi che stiamo correndo in questi tempi difficili. I barbari dello Stato Islamico e delle loro filiali hanno un solo obiettivo: seminare il terrore sfruttando le fratture sociali e culturali dei Paesi in cui vanno a colpire con la speranza che il caos generato a Parigi generi un caos ancora più grande, tra cristiani e musulmani, tra occidentali ‘bianchi’ e gli ‘altri’, o come sostengono i leader dell’IS e di Al Qaeda tra credenti (di Allah) e miscredenti, tra sunniti e sciiti.

Quest’obiettivo terrificante non conosce frontiere. Ieri il mondo aveva gli occhi puntati su Parigi, oggi tocca a Bruxelles. Ma è bene ricordare che il terrorismo continua a seminare morte e desolazione in molte parti del mondo. Il Medioriente, con la Siria e l’Iraq, è sicuramente l’area più colpita dai terroristi islamici, ma subito dopo c’è l’Africa. Dal Mali alla Somalia, passando per la Nigeria, il Camerun, la Repubblica centrafricana (dove il Santo Padre effettuerà una visita ufficiale ad alto rischio nei prossimi giorni), il Kenya, la Tunisia o il Marocco, non passa settimana senza che i media africani (ed europei, spesso disattenti) non menzionino un attentato kamikaze in un mercato oppure un attacco a un albergo frequentato da espatriati.

Basta osservare ciò che è accaduto dall’inizio di novembre per renderci conto che il fenomeno meriterebbe di più dei soliti trafiletti che la stampa italiana dedica al terrorismo in Africa: il primo novembre, a Mogadiscio almeno dodici persone sono rimaste uccise in seguito all’esplosione di un autobomba lanciata contro un grande albergo della capitale somala (attentato rivendicato dagli estremisti islamici di Al-Shabaab); i 17 e 18 novembre, prima a Yola e poi a Kano, nel nordest della Nigeria, una bomba e un duplice attentato compiuto da due ragazze di 11 e 18 anni hanno ucciso più di 50 persone ferendone oltre 120. In entrambi i casi la matrice è la stessa e si chiama Boko Haram. Il 20 novembre è toccato al Mali con l’attacco all’Hotel Radisson blu di Bamako rivendicato da due gruppi terroristici maliani e in cui sono morte 19 persone; il giorno dopo, a Fotokol, un borgo situato nell’estremo Nord del Camerun, quattro donne kamikaze si sono fatte esplodere uccidendo cinque civili; infine, ieri, di nuovo in Nigeria, a Maiduguri, una donna di appena vent’anni ha compiuto un attentato-suicida in cui si contano otto vittime.

Come vedete, all’ombra di tragedie ben più ‘spettacolari’ come quella del centro commerciale di Westgate a Nairobi nel settembre 2013, per non parlare di quanto è accaduto a Parigi, esiste una cronaca del terrore che, tradotta in cifre, assume proporzioni che lasciano senza parole. Nella sola Nigeria, si stima che gli attacchi perpetrati da Boko Haram tra il 2009 e il 2014 hanno ucciso più di 5.000 persone. Ai morti si sommano i feriti, sfollati e rifugiati, le vittime di violenze sessuali e le minacce alla democrazia e alle libertà civili.

I danni provocati da leader jihadisti come Mokhtar Belmokhtar, Ahmad Umar o Abubakar Shekau sono incalcolabili. Sul piano umano certo, ma anche su quello sociale, politico ed economico. Di fronte a tale scempio, non possiamo voltare le spalle pensando che queste tragedie, così lontane in apparenza, non ci riguardino. Dopo i fatti di Parigi, sento dire che dobbiamo pensare innanzittutto a noi. E’ un sentimento comprensibile e per certi versi condivisibile, ma non possiamo chiudere gli occhi di fronte al fatto che il terrorismo è un fenomeno globale, ramificato e ipermediatizzato, che ci riguarda. La cultura dell’odio che i terroristi diffondono tra i nostri giovani in Europa viene alimentato con messaggi e video propagandistici realizzati anche sul continente africano.

Da Roma ad Addis Abeba, da Beirut a Città del Capo, l’ideologia jihadista trova soprattutto linfa nella povertà e la precarietà sociale. Ora, secondo la Banca Mondiale, nel 2012 in Africa circa 388 milioni vivevano in condizioni di estrema povertà, il 43% della popolazione continentale; nonostante poi tassi di crescita economica da far impallidire i Paesi europei, le disuguaglianze sociali tendono ad aumentare.

La Comunità internazionale, ivi compreso l’Unione Africana, è attualmente impegnata in varie parti del continente attraverso operazioni militari tese a smantellare le reti terroristiche africane. Seppur necessario, quest’approccio non basta per sradicare un flagello così esteso.

Come ha ricordato il Premier Matteo Renzi nell’intervista rilasciata a Vita nell’agosto scorso, “la cultura, la cooperazione e gli investimenti sono gli strumenti migliori per combattere la povertà in Africa che sta alla radice dei problemi legati al terrorismo e alle migrazioni”. Quindi bene ha fatto il nostro governo annunciando un aumento nel 2016 dei fondi destinati alla nostra cooperazione allo sviluppo, ma bisogna fare di più. E non solo l’Italia. Nel rinnovare il suo impegno di raggiungere lo 0,7% del Pil nell’ambito dei nuovi Obiettivi di sviluppo sostenibile, questa volta gli Stati membri dell’UE hanno il dovere di rispettare quanto sottoscritto alle Nazioni Unite. Tradirci in tempi così difficili sarebbe imperdonabile. Così come non potremo accettare l’uso del nuovo Fondo fiduciario per l’Africa sulle migrazioni, pari a 1,8 miliardi di euro, che non avesse come obiettivo prioritario proprio la lotta contro la povertà. Altrettanto importanti sono il sostegno a politiche di pacificazione e il rafforzamento della democrazia attraverso processi elettorali trasparenti nel rispetto dei diritti umani. Sul fronte opposto, è giunta l’ora che anche i governi africani si assumano le loro responsabilità. Oggi più che di leader forti, c’è bisogno di una nuova classe dirigente dotata di una grande visione per il futuro del continente. Ne ha bisogno l’Africa, ma anche l’Europa. Perché i destini di questi due continenti, che lo si voglia o no, non sono dissociabili.

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