Mondo

Povero mondo…

Tra le tante vergogne di questa guerra c’è anche il grande silenzio sulla situazione umanitaria (di Carlotta Jesi e Stefano Arduini).

di Carlotta Jesi

Iraq/1. Emergenza cibo. Parla il portavoce del Pam.
9mila camion contro la fame

Il programma Oil for Food, rilanciato dall?Onu, è in fase di rinegoziazione. Ma il Pam ha un piano: “Da qui ad agosto, 480mila tonnellate di cibo al mese per i civili”

“Siamo pronti a intervenire in Iraq in 24 ore”. Francesco Strippoli, direttore delle Relazioni esterne del Pam, il Programma alimentare mondiale dell?Onu, parla al plurale. Per i 168 funzionari della sua organizzazione che attendono di entrare in Iraq dai Paesi confinanti e per i 9mila camion pronti a consegnare alla popolazione civile 480mila tonnellate di cibo al mese da qui ad agosto. Aspettano cosa?, viene da chiedere a Strippoli, pensando agli iracheni sotto le bombe da più di 20 giorni e all?appello di 1 miliardo e 300 milioni di dollari che il Pam ha rivolto alla comunità internazionale per aiutarli.
“Attendiamo di poter agire in sicurezza”, risponde questo funzionario Onu che ha passato 26 anni in prima linea. La sicurezza in cui, prima della guerra, operavano quasi mille colleghi di Strippoli: 800 funzionari iracheni, 50 espatriati e 44mila operatori locali addetti alla distribuzione del cibo del programma Oil for Food. Operatori di cui si sono perse le tracce: “Dall?inizio del conflitto, non sappiamo più dove sono”, spiegano dal Pam. Uno degli organismi Onu che, secondo George Bush e il suo consigliere per la sicurezza Condoleeza Rice, potrà giocare solo un ruolo di secondo piano nella ricostruzione dell?Iraq.
Una pessima notizia per il 60% degli iracheni che dipende dalle razioni di cibo del programma Oil for Food. Bloccato il 17 marzo, quando il personale dell?Onu è stato evacuato dall?Iraq, e riattivato il 28 marzo con una risoluzione del Consiglio di sicurezza che dà a Kofi Annan il potere di riattivare lo scambio di petrolio e cibo per 45 giorni. Quando intervistiamo Strippoli, ne sono già passati 10.
Vita: Che ne è del programma?
Francesco Strippoli: L?Onu sta ridiscutendo i contratti che, prima della guerra, i Paesi fornitori stipulavano direttamente con l?Iraq. Per ora quindi, anche a causa della mancanza di condizioni di sicurezza nel Paese, la distribuzione di cibo non è ancora stata riattivata.
Vita: Come faranno a sopravvivere i civili che dipendono dall?Oil for Food?
Strippoli: Alla vigilia dello scoppio della guerra c?erano scorte sufficienti per 5 o 6 settimane. Stiamo già lavorando nei tre governatorati del nord del Paese dove entro la settimana contiamo di distribuire 6mila tonnellate di farina di grano. E abbiamo lanciato un programma di intervento in Iraq della durata di sei mesi suddiviso in tre fasi.
Vita: Quali?
Strippoli: Contiamo di assistere 2 milioni di civili iracheni entro il primo mese. La totalità della popolazione dal secondo al quarto mese, e quella che ancora ne avrà bisogno tra il quinto e il sesto mese. Quando, speriamo, sarà attivo il programma Oil for Food.
Vita: Cosa succederà allo scadere dei 45 giorni dati a Kofi Annan?
Strippoli: Il Consiglio ridiscuterà la faccenda. Noi, intanto, abbiamo ammassato aiuti alimentari nei Paesi confinanti con l?Iraq, dove 168 funzionari del Pam e 9mila camion sono pronti a entrare in azione quando non ci saranno problemi di sicurezza.
Vita: Quanto tempo vi serve per essere operativi?
Strippoli: Il Pam ha una base di pronto intervento umanitario a Brindisi. Da qui, in 24 ore dalla decisione di rispondere a un?emergenza, partono kit con biscotti multivitaminici ma anche farmaci e squadre con il materiale necessario per aprire un ufficio operativo nell?area colpita. Ma per il personale che attende di entrare in Iraq dal Kuwait, dalla Giordania e dagli altri Paesi confinanti, i tempi si dimezzano.
Vita: Chi dà il via alle operazioni?
Strippoli: Il coordinatore per le operazioni umanitarie in Iraq, Ramiro Lopez de Silva. In generale, comunque, è un lavoro di squadra delle agenzie Onu che monitorano questa situazione in continua evoluzione. Considerate che, oltre al cibo, portiamo sul luogo dell?emergenza cisterne con la benzina necessaria ai camion che trasportano gli aiuti.
Vita: Le ong criticano i soldati che distribuiscono aiuti umanitari. E l?Onu?
Strippoli: L?assistenza umanitaria deve essere indipendente.
Vita: E se Bush dovesse permettervi di entrare in Iraq solo alle sue condizioni?
Strippoli: So che la grande macchina umanitaria del Pam è pronta ad aiutare i civili iracheni.
Carlotta Jesi

Iraq/2. Giorgio Sartori, l?italiano che coordina le ong
La porta d?accesso è sul web

In attesa di entrare in Iraq, le ong di stanza nel Golfo navigano in Internet. Sul portale
HIC Iraq
un centro di coordinamento virtuale creato dall?Onu pochi giorni prima dello scoppio della guerra che riceve 10mila visite al giorno. Di cui molte con un file in allegato contenente informazioni su rifugiati, pozzi d?acqua danneggiati dalle bombe, stime sui fabbisogni alimentari e medici dei civili iracheni.
Informazioni raccolte sul campo da ong e agenzie umanitarie che via email arrivano a Cipro, Hotel Flamingo, stanza 451: il quartier generale dell?Humanitarian Information Centre for Iraq (Hic). Un team di sei persone che raccoglie le informazioni sull?emergenza umanitaria in corso nel Golfo, le inserisce in due database georeferenziati e le pubblica sul sito agoodplacetostart.org divise per categorie: corridoi umanitari verso l?Iraq, emergenze in corso, mappe geografiche. Il tutto con turni di lavoro che non durano mai meno di 14 ore, dalle 7.30 di mattina alle 10 di sera.
A guidare questo gigantesco sforzo di documentazione, c?è un italiano: Giorgio Sartori, 47 anni di cui gli ultimi 13 trascorsi a costruire network di informazione umanitaria per conto dell?Onu in Ruanda, Congo, Palestina, Kosovo e Afghanistan. Che l?emergenza sia causata da forze naturali o umane, l?obiettivo di Sartori non cambia: “Da un lato, dobbiamo facilitare il coordinamento pratico dei soggetti umanitari impegnati sul campo. Dall?altro, creare un linguaggio comune che consenta loro di scambiarsi informazioni”.
Linguaggio che, nel caso dell?Iraq, è tutto da costruire. “Non si tratta solo di tradurre dall?arabo in inglese i nomi di città, fiumi e popolazioni altrimenti impossibili da digitare su computer con tastiere latine. Per anni il regime di Saddam ha proibito di inviare all?estero informazioni sul suo Paese, così non basta dire a una ong che c?è bisogno di acqua in un villaggio. Bisogna dirle dov?è quel villaggio e darle una piantina per raggiungerlo. E il nostro lavoro non finisce qui: ci sono nomi di villaggi che si scrivono anche in tre modi diversi, col risultato che nei database dell?Organizzazione della Sanità appaiono paesi che non risultano in quelli del Pam e viceversa. Una situazione che rende quasi impossibile il coordinamento degli aiuti. Per questo chiamiamo con codici alfanumerici i diversi villaggi in modo che siano riconoscibili da tutti e costruiamo carte geografiche scaricabili dal nostro sito”. Insieme a un altro importante strumento d?azione umanitaria. Il rap, o Rapid Assessment Process: formulario di tre pagine in cui il personale dell?Onu e delle ong raccoglie informazioni su una certa area del Paese. Come, viene da chiedere a Sartori, se a venti giorni dall?inizio della guerra solo poche sigle sono potute entrare in Iraq?
“Il problema è proprio questo”, risponde, “chi è fuori dal Paese ha poche informazioni e chi è dentro spesso non è nelle condizioni di darle. Capite bene che, una volta entrate in Iraq, per le ong il nostro lavoro diventerà essenziale. Appena sarà possibile, apriremo degli uffici interni all?Iraq oltre a quelli già operativi in Giordania e in Kuwait”.
Il lavoro di Sartori rischia di offuscare quello dei due centri di coordinamento creati dagli Usa nel Golfo – l?Humanitarian Operation Centre di Kuwait City e l?Humanitarian Assistance Coordinating Centre di Amman ? snobbati dalla società civile che non vuole entrare in Iraq con un pass a stelle e strisce.
Da Cipro hanno qualche suggerimento, in merito? “Ne stiamo discutendo e stiamo lavorando a un documento in cui si dice che per aiutare i civili iracheni basterà esibire il proprio passaporto. Per ora non è ancora arrivato il momento di entrare in Iraq”. Ma le ong non perdono tempo e si preparano su Internet.
Carlotta Jesi

Iraq/3. Il destino dei bambini
“Un?emergenza senza precedenti”

Una delegazione di Save the Children ha potuto entrare dal
Kuwait per una breve ricognizione. Ne hanno ricavato un?impressione drammatica. Parla Angelo Simonazzi, presidente Italiano.

Angelo Simonazzi, direttore della sezione italiana di Save the Children, storico cartello umanitario che raccoglie 29 associazioni nazionali e aiuta i bambini in oltre 100 Paesi, è una persona mite, ma in questi giorni è furente: “In Iraq è impossibile lavorare. I tre governi protagonisti di questa guerra, Washington, Londra e Bagdad hanno fatto a spallate per prendere a calci il diritto umanitario. Se ne fregano di tutte le norme internazionali, dei civili e dei bambini”.
Settimana scorsa una delegazione di Save the Children Kuwait ha potuto fare una breve ricognizione, grazie a un pass temporaneo rilasciato dalle forze americane, nella vicina Umm Qasr (città di 30mila abitanti affacciata sul Golfo Persico) “dove abbiamo rilevato sintomi di una crisi umanitaria senza precedenti”, riferisce la portavoce Nicole Amoroso.
Vita: Come “se ne fregano”?
Angelo Simonazzi: Sino ad ora, e ho la sensazione che le cose non cambieranno, l?impegno umanitario degli americani si è risolto in un paio di spot a uso e consumo delle tv. Lo abbiamo visto tutti: i militari gettano alla folla pacchi di derrate, le telecamere riprendono, il gioco è fatto. Poi vai a sapere in che mani è finito quel cibo…
Vita: Dove?
Simonazzi: Niente di più facile che nella saccoccia dei clan della zona oppure se lo sono tenuti i soldati stessi. Non voglio fare il moralista, il fatto è che in questo modo migliaia di bambini rimarranno senza cibo.
Vita: Con Saddam era meglio?
Simonazzi: Era la stessa cosa. Tanto che nel 91, quando siamo arrivati a Bagdad, ce ne siamo dovuti andare perché il regime non ci permetteva di soccorrere le minoranze sciite. Ci siamo allora trasferiti a nord, nel Kurdistan, lì Saddam non ci poteva più controllare.
Vita: Meglio soccorrere i bimbi curdi che quelli iracheni ?
Simonazzi: Meglio donare cibo, vestiti e medicine ai bambini che regalarli al regime.
Vita: Nel nord dell?Iraq gli ultimi 12 anni sono trascorsi fra guerra, vendette di guerra, embargo, attesa di guerra e ancora guerra. Come si può crescere così?
Simonazzi: L?embargo ha raddoppiato la mortalità infantile, distrutto scuole e ospedali. Laggiù i bambini vivono in una condizione di fragilità psicologica e ansia impressionanti. Prima dello scoppio del conflitto lo abbiamo detto: i bambini curdi non volevano un?altra guerra, questi giovani hanno un senso di indigestione verso le armi, perfino se usate contro l?odiatissimo Saddam. Nessuno purtroppo ci è stato ad ascoltare.
Vita: Anche i bambini hanno memoria dei massacri?
Simonazzi: Certo, il ricordo fa parte della cultura curda, è un modo per conservare un?identità etnica, ma questo non toglie che non possano più sopportare il prezzo di scappare da un posto all?altro, di separarsi dai loro genitori, di patire il freddo e la fame.
Vita: Si possono recuperare giovani così traumatizzati?
Simonazzi: Nel 93/94 sono stato in Liberia e Sierra Leone, mi occupavo di un centro di recupero per bambini soldato. Questi giovani avevano perso l?abilità del gioco, se ne stavano tutto il tempo in disparte, a non fare nulla. Passivi, assenti dal mondo reale. Quasi una forma di autismo. La mia esperienza, però, mi dice che i bambini, se seguiti e messi nelle condizioni adeguate, hanno una capacità di recupero psicologico molto superiore a quella degli adulti. Ma servono scuole, educatori, insegnanti. Devono ritrovare un contesto familiare naturale che i militari non hanno le capacità e l?interesse di creare.
Stefano Arduini

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