Mondo
Poveri di tutto il mondo, attenti ai volonturisti
Si chiamano così, sono soprattutto giovani in anno sabbatico, occidentali, entusiasti ma impreparati. Viaggiano nei paesi poveri convinti di aiutare, ma fanno danni. Anche perché spesso non li mandano le ong, ma tour operator profit e perfino compagnie di crocera
L'ultimo in ordine di tempo è stato il parco Universal Studios di Orlando, in Florida, che ha lanciato un pacchetto turistico per famiglie da 589 dollari che comprende, oltre ai soliti ingresssi al parco e notti in alberogo di lusso, quattro ore di volontariato presso il campo Give kids the world, un'area speciale gestita dalla non profit della Universal dove vengono ospitati gratuitamente bambini malati gravemente che desiderano vedere, forse per l'ultima volta, il centro di attrazioni.
La compagnia di crocere di lusso Crystal Cruises non è da meno, visto che propone ai croceristi "escursioni" al barrio di Cartagena in Colombia o alla food ban di Tallin in Estonia o anche al Villaggio SOS di Montevideo, non per visitarli ma esplicitamente per "fare un'esperienza di volontariato". Al tramonto, naturalmente, tutti a bordo, che si serve la cena. La famosa catena Ritz-Carlton è una pioniera, visto che già dal 2008 ha inaugurato il programma “Give Back Getaways,” che offre ai turisti esperienze solidali all'interno di vacanze a quattro stelle: per il mese di aprile 2013 per esempio sono disponibili diversi pacchetti per servire alle mense per poveri di New Yor, Dallas e New Orleans, mentre i più avventurosi possono prestare servizio presso un centro per anziani poveri di Mosca, costruire case a Giacarta o nutrire le iguana blu alle Cayman.
Si chiama “voluntourism” ed è uno dei fenomeni più controversi e in crescita del settore turistico mondiale. Molto diffuso nei paesi anglofoni, si sta ritagliando una fetta importante del business turistico giovanile globale, valutato in 173 miliardi di dollari. Cosa c'entri poi l'altruismo in una vacanza che promette, come da depliant, "avventura ed esperienze indimenticabili", se lo stanno chiedendo in molti, e il canadese National Post dedica all'argomento un approfondito speciale.
"Quando abbiamo iniziato, nel 1995, le organizzazioni che offrivano viaggi all'estero per volontari si contavano sulle dita di una mano", testimonia Steve Rosenthal, fondatore della non profit Cross-Cultural Solutions. "Adesso ogni volta che faccio una ricerca su internet trovo nuovi operatori che non avevo mai sentito prima".
Il volonturismo deve molto del proprio sviluppo alla moda del "gap year", l'anno sabbatico che sempre più studenti inglesi o americani si prendono alla fine del college o dell'università, e nel quale è praticamente d'obbligo inserire un'esperienza di volontariato. "E' diventata una tendenza", testimonia la ricercatrice Barbara Heron dell'università di York. "E come tutte le mode viene spesso seguita da persone che si adeguano al trend generale, senza alcuna motivazione e preparazione. Così cominciano i problemi".
Il primo è rappresentato da chi gestisce il flusso dei volonturisti. Non più solo organizzazioni consolidate come i Peace Corps o il Rotary Club: fiutando i guadagni, nel business si sono gettati a capofitto i tour operator tradizionali, le catene di hotel e le agenzie turistiche di ogni tipo. "Questi operatori sono interessati al profitto, non certo alla missione", continua Rosenthal. "Ma avere a che fare con veri orfani, veri poveri o vere scuole richiede motivazione e preparazione. Altrimenti si fanno solo danni".
Eccone alcuni: il flusso ininterrotto di volontari che svolgono lavori di riparazione o costruzione sottrae occupazione alla manodopera locale; le visite agi orfanotrofi disorientano i bambini e creano in loro aspettative ingiustificate, se non legami affettivi destinati ovviamente a rompersi; un gregge di volonturisti giovani e inesperti è difficile e costoso da gestire, ed esaurisce le forze degi operatori locali anziché alleviarne il lavoro. "Devi seguirli, sorvegliare dove vanno e cosa fanno", dice ancora Heron. "Non sanno cosa è pericoloso e cosa no, non prendono precauzioni e poi si ammalano. Si ammalano tutti".
"Nonostante le buone intenzioni, i volontari internazionali che non seguono le best practice del settore possono essere inutili, scorretti e dannosi" avverte la ong americana Unite for Sight. E un rapporto del 2011 che ha preso in esame l'impatto delle missioni all'estero di 50mila giovani inglesi in gap year ha concluso che esiste il concreto rischio che queste si trasformino in una riedizione del vecchio colonialismo travestito da charity. Senza contare le tante ironie che suscitano ormai apertamente i volonturisti in sandali che sbarcano nel villaggio africano solo per scattare foto da mettere su facebook.
Il National Post intervista anche alcune serie ong canadesi (come Crossroads International e Cuso) che pure inviano giovani all'estero in gap year, ma obbligandoli a una seria formazione, sia in patria che in loco, e li affiancano ad operatori esperti finché non sono in grado di lavorare da soli. "Anche un diciannovenne in infradito può trasformarsi in risorsa", hanno spiedato da Cuso, "ma bisogna avere tempo e pazienza. In una settimana non si combina niente".
Comunque anche nei paesi abituati ad accogliere orde di volonturisti sbarcati dai charter c'è chi ha pensato bene di organizzarsi. Come il villaggio di Petersfield, in Giamaica, una comunità di poco più di 2000 anime che ha dato tra l'altro i natali al musicista reggae Peter Tosh. Qui la gente ha pensato di sfruttare la situazione a proprio vantaggio, e in collaborazione con la ong americana Amizade offre continuamente ospitalità gratuita a giovani volontari in cambio di lavori di pubblica utilità: in questo modo l'amministrazione comunale ha delegato del tutto imcombenze quali la manutenzione degli edifici pubblici e privati, la distribuzione di pasti agli anziani e perfino i corsi di informatica nella scuola elementare: nessun problema, ci pensano i nerd a stelle e strisce a insegnare ai bambini giamaicani come si usano computer e tablet. Geniale, no?
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