Potere alle macchine. Gli uomini? A pane e acqua

di Marco Dotti

Nel 1963, la tecnologia venne incorporata per la prima volta in un una slot machine. Tecnologia a base elettromagnetica, ma sufficiente per imprimere una doppia accelerazione al settore del gaming machine.

Da un lato, la sostituzione di molle e ingranaggi con circuiti e interruttori rendeva più sicura la gestione del gioco, evitando che colpi e movimenti provocati ad arte dai giocatori più esperti potessero in qualche modo compromettere i risultati programmati per la macchina. Si riduceva, in sostanza, la componente già residua di abilità manuale, che poteva mandare in “tilt” i congegni facendo sballare i calcoli dei gestori. 

D’altro canto, tramite luci, suoni e colori si potevano però massimizzare i dispositivi capaci di attrarre l’attenzione o trattenere il giocatore, costruendo una sorta di gabbia basata su una sorta di “incantamento” del giocatore: suoni, colori e un ultimo tocco, la simulazione. Per non togliere al giocatore il “piacere” di credersi più furbo della macchina, vennero infatti introdotti suoni e movimenti del rullo che, anche in ambiente elettronico, simulavano le vecchie slot machine con molle e ingranaggi. Di quelle molle e di quegli ingranaggi non rimaneva più nulla, se non la simulazione totale.

Eravamo all’inizio di un processo di smaterializzazione che oggi, nell’era della portabilità digitale, è stato spinto all’estremo, grazie anche alla possibilità di giocare con high-speed machines altamente digitalizzate e accelerate nei processi, servendosi al contempo di carte di credito e persino di forme “alternative” di denaro, da Bitcoin in giù.

Lo scorso 28 febbraio è stato il redattore degli affari sociali Randeep Rahnesh, sulle pagine del “Guardian”, a lanciare l’allarme: nella sola Inghilterra, più di 13 miliardi di sterline sono stati bruciati in un anno con queste macchine. A perdere sono i ceti più poveri, come sempre nella storia di questa vicenda perversa del già problematico rapporto uomo-macchina.

Il tempo è sempre il fattore chiave di questa smaterializzazione, ma è un tempo iper accelerato, funzionale ad altro rispetto a quell’orizzonte “ludico” in cui – per ingenuità, malafede o pigrizia – molti analisti ancora inscrivono il gaming machine. È un tempo funzionale per la costruzione sociale dell’addiction – comunque la si voglia intendere: devianza istituzionalizzata, patologia e via discorrendo – ma anche per le non meno prosaiche strategie di business che quella addictionsottendono, industrialmente programmano e culturalmente alimentano.

L’uomo, scriveva nel 1964 Jacques Ellul, è sempre più ridotto al ruolo di catalizzatore di profitti e imposte. Anche la tecnologia, piegata a un orizzonte interamente compreso nella sfera della gamificationsembra non dargli scampo (persino il lavoro è ridotto a un azzardo, tra sistemi di valutazione, selezione, assegnazione, retribuzione trasformati in “gioco” o, peggio, a una variabile aleatoria).

Tra le pagine più dense del suoLa téchinque ou l’enjeu du siècle, oggi tornato d’attualità anche grazie alla recente pubblicazione dell’inedito proseguo Théologie et technique. Pour une éthique de la non-puissance(Labor et Fides, 2014), Ellul ricordava che in questo contesto l’uomoassomiglia sempre più «a un falso gettone inserito in una slot machine. Inizia l’operazione senza prendervi parte». 

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