Welfare

Possiamo contare sulle reti d’impresa?

di Flaviano Zandonai

Credo sia una domanda che si fanno in molti, più di quel che si pensa. Le contingenze delle crisi, e direi il passaggio d’epoca in atto, mettono sotto pressione non solo le singole imprese, selezionando, in senso quasi darwiniano, quelle che meglio si sanno adattare ai nuovi paradigmi dell’economia e della socialità, ma anche i network in cui sono inserite. E questo alza la posta in gioco perché a vincere o “a saltare” ora sono i sistemi locali e gli asset nazionali. Basti pensare a quel che sta succedendo nei distretti industriali o in alcuni comparti tradizionali del made in Italy e alle preoccupazioni, più che giustificate, di imprenditori, sindacati, amministratori pubblici. E per l’impresa sociale? La domanda è ancora più cruciale perché, nel suo piccolo, una parte consistente di questo settore ha fatto dell’opzione di rete un elemento caratteristico del proprio modello imprenditoriale.

Non è un caso che un crescente numero di consorzi ha accopagnato lo sviluppo delle imprese sociali cooperative, in particolare nelle aree più “mature” del nord e centro Italia (e il fatto che a sud i consorzi mancano è, a contrario, un indicatore emblematico del loro ruolo). Il valore dello “stare in rete” è evidente: le imprese sociali consorziate sono molto più sviluppate in termini di performance imprenditoriali e sociali. Il problema è che negli ultimi anni questo valore sembra aver perso consistenza: la percentuale di aderenti non cresce e si erodono, seppur lievemente, i margini di vantaggio competitivo. Come mai? Tra le tante risposte possibili spicca la difficoltà a riconoscere anche alle reti lo statuto, non solo formale, di impresa sociale. Molte di esse assomigliano a una qualsiasi struttura di supporto, magari efficiente, per fare business col general contractor o per dare visibilità al settore (in collaborazione / competizione con le organizzazioni sindacali). Chi ha intrapreso la lunga marcia verso il “consorzio di comunità” sta invece operando una autentica svolta a “U” (augurandoci che sia consentito): da struttura di back office a rete aperta al territorio, intermediando un sistema coeso di imprese e organizzazioni sociali (non solo cooperative), in grado di produrre beni e servizi di welfare in filiere che attraversano i confini tra politiche e ambiti di intervento (inclusione e cura, socializzazione ed educazione, ecc.). E aprendo a collaborazioni non estemporanee con altri attori: pubblici, del terzo settore e dell’imprenditoria for profit. Forse è per questo che i consorzi comunitari, come quello di Forlì, ci tengono molto a fare in rete la rendicontazione sociale.


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