Non profit

Porto i bambini a 3.500 metri per fargli capire cos’è la vita

Marco Confortola

di Francesco Elli

Marco è arrivato al campo 4. Sta prendendo ossigeno e farmaci. È provato dal freddo e dalla fatica, ha princìpi di congelamento in diverse parti del corpo. Con lui ci sono due sherpa e un medico che lo stanno curando. Del capo della spedizione olandese Wilco Van Rooijen si sono perse le tracce, così come dell’irlandese Gerard McDonnell e del francese Hugues d’Aubarade. Pare che altri tre coreani siano bloccati in quota, congelati dal ginocchio in giù. Uno dei soccorritori, forse uno sherpa, è precipitato insieme all’alpinista che stava salvando. È peggio di un bollettino di guerra». Così, da questa cronaca in diretta dal campo base himalayano del K2, nell’agosto del 2008 il nome di Marco Confortola è diventato famoso anche al di fuori della cerchia degli appassionati di alpinismo. Protagonista di una delle più grandi tragedie dell’alpinismo moderno.
Durante la discesa dal K2, una valanga travolge l’intera spedizione. Alla fine i morti saranno 11. Tra gli scampati c’è lui, Marco, classe 1971, sei “ottomila” alle spalle. L’ultimo, appunto, il maledetto K2. Che gli ha portato via tutte le dita dei piedi, amputate dopo il congelamento, ma gli ha lasciato la vita. Tornato a casa, nella sua Valfurva, ha raccontato quelle ore di paura e coraggio nel libro Giorni di ghiaccio (edito da Baldini Castoldi Dalai) e, pian piano, ha ripreso a camminare, a correre e ad arrampicare. E a dedicarsi con ancora più entusiasmo alla sua iniziativa benefica “Lo sport è vita”.
Perché ha dato vita all’associazione “Lo sport è vita”?
Potrei rispondere: per egoismo. Perché sono talmente innamorato della montagna che la voglio far conoscere a tutti, soprattutto ai bambini. “Lo sport è vita” è nata nel 2005, dopo la mia spedizione sull’Everest. L’idea, per cominciare, è stata quella di organizzare un evento, da ripetere ogni anno: per mettere assieme i bambini che vivono qui nei paesi della Valfurva e portarli a fare una passeggiata in montagna. Nel 2007 siamo stati sul Cevedale, nel 2009 al Tresero e nel 2010 al Monte Confinale. Tutte montagne di più di 3.500 metri, e ogni volta ci abbiamo portato più di cento bambini. L’iniziativa si è allargata, e di anno in anno partecipano anche gruppi di bambini che vengono da fuori, che non sono della valle.
Qual è il senso di questa iniziativa?
Trasmettere ai bambini i veri valori dello sport e dell’amicizia, un tema fondamentale che ho vissuto sulla mia pelle: nei momenti più brutti sono gli amici veri che ti aiutano. Oltre all’evento in sé, poi, con i filmati e le fotografie che facciamo durante la giornata, giro in diverse scuole in tutta Italia per testimoniare l’importanza di fare sport in modo sano.
Perché i bambini?
Perché sono ancora capaci di stupirsi davanti allo spettacolo naturale che le vette regalano, e poi perché in montagna, anche se faticano, si divertono, ed è così che dovrebbe essere. Io lo faccio, sia quando siamo in passaggiata sia poi, negli incontri nelle scuole, cercando di insegnar loro che la vita è il dono più prezioso che hanno, e che lo sport sano ti regala delle emozioni incredibili e insostituibili. Nello stesso tempo, però, lo sport ti insegna che ci sono anche delle regole da rispettare, che per arrivare in cima alla montagna devi fare fatica, devi metterti in gioco. Ma la soddisfazione, poi, sarà ancora più grande.
La montagna, però, è anche pericolo. La sua storia lo insegna.
Io forse sono di parte, perché penso di essere nato proprio per andare in montagna, è il mio habitat naturale. Però, in realtà, penso che sia la vita a funzionare così, e trovo sia molto più pericoloso per un ragazzo mettersi al volante dopo che, magari, ha bevuto un po’ troppo in discoteca, che non diventare un alpinista preparato che affronta la montagna.
Che cosa la montagna può dare in più rispetto agli altri sport?
Per me la cosa fondamentale è che i giovani facciano sport, perché qualsiasi sport trasmette dei valori fondamentali, sia che uno corra, che vada in bicicletta o si metta a nuotare. La montagna, per me, ha in più un aspetto di riflessione: in montagna c’è silenzio, c’è tempo e spazio per stare anche con se stessi. La montagna, poi, è difficoltà: per questo scelgo salite impegnative e, tra un paio d’anni, ho il progetto di portare i bambini a fare una vera e propria traversata sui ghiacciai, per fare un passo in più, per dimostrare che la montagna insegna anche la voglia di lottare. E a me, sul K2, quella voglia ha salvato la vita.
Qual è il suo rapporto, oggi, con la montagna, dopo quella terribile avventura?
La montagna è la mia vita, oltre che il mio lavoro. Non potrei pensare di stare senza. Oggi sono tornato a fare il maestro di sci, la guida alpina, il soccorritore. Sono tornato a correre, anche se è più doloroso, e piano piano sono convinto che tornerò anche ad arrampicare come prima. Il mio progetto è riuscire a tornare in cima a un ottomila e fare una foto da mettere in copertina del mio prossimo libro. Il concetto è fare qualcosa che possa aiutare chi, in qualche modo, deve ricominciare da zero. Gli dimostro che si può fare.

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