Cultura

Porto Alegre: Il bisogno di politica (di Tarso Genro)

Il sindaco di Porto Alegre: "siamo di fronte a stati in cui dominano le premesse tecniche e finanziarie. E a una socialità impotente. Occorre un nuovo patto sociale"

di Redazione

Ciò di cui oggi discutiamo è se le relazioni globali costruite sulla forza normativa del capitale finanziario, nel contesto della rivoluzione tecnologica, non stiano seppellendo la contrattualità sociale moderna. Credo che, a ben vagliare la questione, ci si trovi davanti a un?estrema impotenza: quella degli elettori di fronte all?autonomia degli eletti. In questo schema, i primi risultano sottomessi dalla logica implacabile dello Stato, che è debole nell?esercizio delle sue funzioni pubbliche, soprattutto in ambito macroeconomico ma che, tuttavia, si esprime a volte in maniera arrogante con il suo apparato pubblico. Si tratta, in definitiva, di un tipo di Stato nel quale predominano le premesse ?tecniche? per orientare le politiche, quando le premesse politiche dovrebbero avere il predominio.
La relativa indifferenza dei cittadini verso la politica che si osserva in molti dei Paesi del ?primo mondo? e il grande scetticismo della gente nei Paesi di medio sviluppo, come il Brasile, sono la conseguenza della fine del moderno contratto sociale. Quest?ultimo ha perso la capacità di unire socialmente, e la coesione sociale è stata sostituita (in forma manipolata) dal consumismo sfrenato. D?altra parte, ha perso anche la capacità di dare risposte alle grandi domande sociali, che sono state ?soddisfatte? dalla ?statalizzazione? della filantropia e dalle politiche di sussidio. Conseguenza di tutto ciò è la creazione di una maggioranza sociale che perde la capacità di forgiarsi un?identità politica e costruirsi una propria socialità tramite il lavoro. L?impossibilità di ottenere un?identità tramite il lavoro, conseguenza della disoccupazione e dei cambiamenti sostanziali nelle forme di lavoro, genera questa nuova ?socialità impotente?. Contemporaneamente stanno nascendo una gamma differente d?aspettative per il futuro. Che disarmano qualunque utopia che non si traduca in merce o in consumo, distruggendo la cultura e l?esperienza delle classi sociali e senza costruire altre relazioni organiche. Oggi la democrazia è ?senza territorio? in funzione di una totalità oggettiva (il potere reale del capitale finanziario), che ha la sua origine in una globalizzazione non diretta dalla politica bensì dalla tecnica di riproduzione virtuale del denaro. La conseguenza è l?anonimia mondiale e non solamente l?anonimia locale o territoriale. E questo processo permette solo l?incertezza come via d?uscita. L?insicurezza di fronte alla violenza, il terrorismo o la criminalità diventa una realtà, in maggiore o minor grado, in tutte le società occidentali e costituisce un duro simbolo di questa crisi. Come affronteranno la questione i partiti democratici e, se sapranno affrontarla, è un tema ancora aperto.
Fino a ora siamo a metà tra le esperienze locali, portate a termine dai governi di singole città, e il pragmatismo ?liberalizzante? dei governi nazionali, molti dei quali di sinistra. Detto pragmatismo a volte opera con un linguaggio apparentemente socialdemocratico, vincolato alla politica tradizionale che distribuiva i redditi ma che, attualmente, indebolisce la funzione pubblica dello Stato.
Bisognerebbe tentare di ?disegnare l?utopia? più modestamente: abbassare le aspettative emancipatrici per unire una forza sociale espressiva e una maggioranza politica (senza la quale non c?è possibilità di trasformazioni democratiche), con l?obiettivo di rifondare il moderno contratto sociale. E farlo da due punti cardine: sottomettere lo Stato alla forza della politica, e con ciò revocare la forza normativa del capitale finanziario e, anche, fare dell?inclusione sociale il centro delle politiche pubbliche, superando le politiche di puro sussidio. L?inclusione sociale sarebbe, dunque, l?elemento etico per una nuova ridistribuzione dei redditi.

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