Cultura
Portami via, il documentario dedicato ai corridoi umanitari
Dal Libano all’Italia. Il racconto del viaggio di una famiglia siriana in cerca di una vita migliore. Prodotto da Invisibile Film, il documentario è stato realizzato dalla giornalista Marta Santamato Cosentino: «Prima della guerra avevano una vita meravigliosa: queste persone potremmo essere noi», dice a Vita.it. Nell'articolo il trailer del documentario
di Anna Spena
«Il mare è calore e dolcezza. Però il mare ha due significati. Sì perché normalmente il mare è calore e dolcezza. Ma al giorno d’oggi il mare significa morte», Jamal, 53 anni, siriano rifugiato in Libano. Oggi vive in Italia. Ma lui a scegliere il mare non ce l’ha fatta. È il papà della famiglia “protagonista” del documentario “Portami via”, dedicato ai corridoi umanitari autoprodotto da Marta Santamato Cosentino e Invisibile film.
L’autrice, Marta Santamato Cosentino è una giornalista di 29 anni, esperta di Medio Oriente: «Due anni fa ho deciso di trasferirmi a Beirut», dice a Vita.it. «Per raccontare il Medio Oriente lo devi vivere da dentro, Beirut doveva essere casa mia». Quello dei corridoi umanitari è un progetto frutto del Protocollo d’intesa tra il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale – Direzione Generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie; Ministero dell’Interno – Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione; Comunità di Sant’Egidio; Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Tavola Valdese.
I Corridoi Umanitari promuovono, senza oneri per lo Stato, una campagna di pressione per l'approvazione a livello nazionale ed europeo, di una legislazione che protegga i diritti e la sicurezza dei richiedenti asilo affinché non si vedano costretti ad affrontare illegalmente il mare o la rotta balcanica.
«Fino ad oggi sono stati rilasciati circa mille visti», spiega Marta Santamato. «Poco alla volta le famiglie stanno arrivando in Italia, e – poco prima che partissero – io ne ho scelta una: ho vissuto tre mesi con loro e raccontato con “Portami via” il viaggio verso una vita nuova, volevo essere il diario della metamorfosi della loro famiglia».
Il “prossimo corridoio” arriverà a fine ottobre, dal Libano si aspettano dalle ottante alle cento persone. La famiglia della storia di Marta in Italia è arrivata a maggio ed oggi vive in una casa della Tavola Valdese a Torino. Hanno ottenuto l’asilo politico. I rifugiati che vivono in Libano – o sopravvivono visto che loro, per lo più siriani, nel Paese non hanno diritti, stanno in alloggi di fortuna e aspettano in questo “limbo” la possibilità concreta di una vita migliore – sono circa un milione e mezzo. Ma la stima ufficiosa, invece, racconta di un numero di gran lunga più elevato…
«Sono nata ad Homs, in Siria tra i gelsomini del Levante», dice nel trailer del documentario una delle figlie di Jamal. La famiglia scelta da Marta è composta da sette persone: insieme a Jamal sua moglie Wejdan di 53 anni, poi la figlia Talaat di 25, mamma di Tarek di un anno e mezzo; Alaa di 21 anni, Khaled di 18; Talal di 14. E da Homs sono dovuti scappare perché è proprio lì che è nata la rivoluzione.
Oggi il papà cerca lavoro mentre i ragazzi vanno a scuola. «Vorrei tornare piccolo», dice Talal, «più piccolo di così». Nel documentario vengono ripresi tutti i momenti della partenza: si vede Wejdan, la mamma, che bacia – con tanti baci – tutto il viso di suo padre. Lui non ha il visto. Deve rimanere in Libano.
Come si scelgono le famiglie che possono utilizzare i corridoi umanitari? «In base al criterio della vulnerabilità», dice amareggiata l’autrice. «Scegliere in quel contesto è difficilissimo, però si è arrivati a due criteri: il primo riguarda i casi clinici che in Libano sono impossibili da curare, lì la sanità è privata. Il secondo, invece, per le persone che in passato sono state vittime di tortura, e Jamal è una di quelle».
Il documentario sarà presentato a Milano il 17 ottobre dalle ore 19 presso l’Ostello Bello di via Medici, 4. «Ho scelto proprio questa famiglia», racconta Marta Santamato, «perché loro somigliano a noi, mi spiego: nessuno di noi pensa mai che queste persone che arrivano dalla Siria possano avere un vissuto simile al nostro, invece loro in Siria – prima della guerra – avevano una vita meravigliosa. Con loro non ho mai provato pietà ma sempre empatia. Queste persone potremmo essere noi».
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