Mondo

Ponziano e i suoi ribelli

Un frate comboniano pugliese da quarant’anni in Africa rapito e rilasciato dai guerriglieri ugandesi

di Mara Mundi

«Carissima Nina, forse hai saputo che ieri i ribelli hanno attaccato Opit e sono entrati anche in Missione. Dopo aver preso un po? di roba, hanno preso Giorgio il volontario e me, e ci hanno portato via con loro. Erano le 6.30 di mattina. Dopo aver camminato varie ore, verso mezzogiorno ci hanno liberati e, al ritorno, alcune persone ci hanno aiutato con due biciclette a tornare a casa. Il nostro ritorno è stata una grande gioia per la gente, che ha riempito l?attesa e ha chiesto di ringraziare il Signore e la Madonna per il nostro ritorno. Non preoccupatevi perché io sto bene. E la nostra presenza per la gente è importante perché non si sentano abbandonati anche da Dio. Ciao, saluti a tutti e un abbraccio a tutti voi».

Quel giorno a Opit arrivarono i guerriglieri
Padre Ponziano Velluto scrive alla sorella Nina. Dall?Africa, con grafia decisa ed italiano incerto, parte un fax. Destinazione, Troia, un piccolo paesino di ottomila anime, poco distante da Foggia, suo paese natale. Lì vive la sua numerosa famiglia: i suoi 7 fratelli, i suoi 21 nipoti. È domenica mattina, lo scorso 5 marzo. Il padre comboniano in missione ad Opit, in Uganda, il giorno prima è stato rapito dai ribelli del Lra ? ?l?Esercito di resistenza del Signore?. È una cosa comune da quelle parti, da quando, circa quindici anni fa, si inasprirono le tensioni tra il Sud del vicino Sudan ed il Nord dell?Uganda.
La prima esperienza di quel tipo per Giorgio Vicariotto, il volontario laico vicentino; una delle tante per padre Ponziano, che, nei suoi lunghi 38 anni in Africa, ha smesso di portare il conto dei rapimenti, delle aggressioni, dei furti subiti.
«Un giorno, due ribelli mi fermarono e, puntandomi una pistola alla fronte, mi ordinarono di consegnare la batteria dell?auto sulla quale stavo viaggiando», ci racconta con voce ben impostata, che non tradisce alcuna emozione. Anzi, a tratti, si avverte con prepotenza la gioia che lo accompagna nella sua missione. Ha due sogni da realizzare, padre Ponziano. E quando ce li racconta, sembra scordare ogni fatica, tutti i sacrifici.
«Le principali emergenze a cui dare risposta sono il potenziamento e la riqualificazione dell?intervento sanitario e l?offerta di un piano formativo ai tanti giovani, che rappresentano l?85% dell?intera popolazione. Mi piacerebbe», continua il missionario, «poter ristrutturare il centro medico di Opit, danneggiato dalle tante incursioni di soldati e ribelli, attrezzarlo con un laboratorio per le analisi e trenta posti letto. Altrettanto ambizioso è il progetto di costruire una scuola tecnico-professionale con quattro sezioni: muratura, falegnameria, meccanica ed agricoltura».
La voce si fa un po? più bassa quando ci racconta di Simon Peter, che cacciato di casa dal padre, si arruolò nell?esercito dei ribelli. Grazie all?interessamento di padre Ponziano, il giovane fu adottato da una vedova, Alice, che lo accolse come suo figlio, insieme alle altre cinque bocche da sfamare. È una storia fatta di tante piccole, grandi soddisfazioni e piccole, grandi sofferenze, quella del missionario pugliese, che ormai si sente africano. Tanto da dire: «Se dovessi morire, voglio essere seppellito qui, tra la mia gente».
Nelle poche, interminabili ore di angoscia del rapimento, il suo paese era in fermento. Agitata la sua famiglia, costernata un?intera comunità. Perché lui, padre Ponziano «missionario c?è nato», come dicono tutti quelli che lo conoscono da quando era bambino. Settimo di dieci figli, ancora giovanissimo mostra la sua forte vocazione.
Una famiglia di agricoltori, la sua. Abitavano sul corso del paese, a pochi passi, dall?istituto dei missionari comboniani.
«Avevo solo sette anni, quando la mattina mi alzavo all?alba per andare ad ascoltare la prima messa. Mettevo un banchetto vicino alla porta-finestra per vedere i missionari a passeggio. Terminata la quarta elementare, entrai in seminario. Allora, mangiavamo solo un po? di semolino con olio crudo. Quello era il nostro frugale pasto. Ma a mia madre, che la domenica veniva a trovarmi, rispondevo sempre con tono sicuro: « ?Mamma, sapessi, mangiamo così bene?. Volevo che fosse serena».
Quando il ricordo va alla sua mamma, la voce di padre Ponziano si incrina un po?, più di quando ci racconta dell?ultimo attentato alla sua missione, risalente all?anno scorso. In quella triste circostanza, una ragazza perse la vita. E l?avrebbe persa anche lui se non fosse riuscito a trovare rifugio sotto un tavolo. Accanto a sé, una foto ?bucherellata? di Padre Pio: solo gli occhi erano rimasti integri, sotto gli impietosi colpi di pistole e mitragliette. Il ricordo della mamma ha l?amaro sapore dei sacrifici più dolorosi che la vocazione gli ha richiesto. Padre Ponziano è in Africa da quasi quarant?anni. Sono successe tante cose in questo tempo. Ha imparato la lingua del suo nuovo popolo, ha quasi dimenticato quella della sua terra natìa, che adesso parla a fatica. Le sue sorelle, i suoi fratelli si sono sposati. Hanno avuto figli, che hanno fatto altri figli.

Un scelta di vita che supera gli affetti
Miriam è una splendida bambina di quasi due anni. È la figlia della figlia di Nina. Ponziano l?ha vista lo scorso settembre per la prima volta, la rivedrà quando Miriam avrà quattro anni, e poi quando ne avrà sette, e poi dieci, e così via. La rivedrà ogni tre anni, perché ogni tre anni torna in Italia. Torna al suo paese.
Prima tornava ogni sei. Ed in sei anni succedono tante cose. Troppe. Ne succedono tante anche in pochi giorni, in poche ore. Ponziano era in Italia quando la sua mamma stava già male. Ma la gente dell?Africa lo aspettava. Ponziano partì.
Era l?aprile del 1978, e la signora moriva. Lo chiamò spesso in quei momenti. Un forte, intenso dolore, quel ricordo. Anche oggi, dopo tanto tempo. Non ha mai avuto ripensamenti, però. La sua è una scelta di vita, che gli dà la forza di andare ogni giorno contro e incontro alla morte. Lotta per sconfiggerla, ma è costretto a conviverci, in così tanta miseria. In così tanta precarietà nell?igiene, nella nutrizione, nella dignità umana. «Una volta una donna arrivò correndo alla missione. In braccio aveva un bambino che urlava, piangeva forte per un dolore insopportabile ad una gamba. Cercai di capire cosa avesse. Un lungo verme usciva dal suo polpaccio. Lo sfilai. Era il segno evidente del degrado totale in cui quella gente era ed è costretta a vivere. Infezioni di ogni tipo sono molto diffuse in Africa».
Nina è l?ultima dei fratelli, Francesco è il primo. Abitano vicini a Troia. È una famiglia molto unita la loro. Ma quando a Ponziano chiedono di tornare, la sua risposta è sempre la stessa: «Voi vi siete sposati, vi siete costruiti una vita. La mia vita è questa qui, i miei figli sono laggiù».
A Nina spedisce fotografie. Ritraggono quel piccolo lembo di Sud del mondo che in qualche modo gli è stato affidato. Uomini, storie, dolori, gioie: un gorgo di vita che quotidianamente gli viene messo di fronte. In una si vedono alcune donne su un prato verde, ma senza fiori. Sorridono. Dietro c?è scritto: «È un giorno di festa, si mangia riso». Migliaia di chilometri di distanza, un altro continente.Cinquant?anni fa, nell?istituto dei comboniani a Troia, mangiava semolino con olio crudo.Tempi, luoghi, situazioni diverse. Sempre la stessa fede.

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