Famiglia

Ponticelli, un patrimonio di fragilità che può diventare bellezza

Un mese fa le baby gang di Napoli erano un'emergenza nazionale, ora nessuno ne parla. Antonella Di Nocera quelle parole rifiuta di pronunciarle, ma ci guida in una riflessione profonda sulla perdita della normalità quotidiana di una città che si fa comunità. «Se una parte di città non ha più coscienza dei propri diritti, l’altra non riconosce il problema come proprio. Ma se questo vuoto dentro è comune a molti e fa male, è da lì che si intravede un segno di ripartenza»

di Sara De Carli

A metà gennaio il ministro degli Interni era a Napoli per un vertice urgente in Prefettura sulle baby gang cittadine, diventate per qualche giorno «emergenza nazionale». Dieci ragazzini erano stati aggrediti in un mese e mezzo con violenza: presi a pugni, a calci, accoltellati da altri minorenni. Il tema è sparito rapidamente dalla ribalta nazionale. Resta invece nel lavoro quotidiano e sottotraccia di chi ai ragazzini di Napoli sta vicino giorno per giorno, perché – come dice Luigi Malcangi, referente territoriale per la Campania di Save the Children, con Punti Luce aperti alla Sanità, Barra, Chiaiano e Casal di Principe – «queste cose non si risolvono quando accadono ma quando c’è il silenzio del lavoro sulla crescita dei ragazzi. Molti dei nostri conoscono i ragazzi coinvolti in quegli episodi, ne abbiamo parlato, ma se ce ne occupiamo solo quando c’è l’emergenza, i ragazzi se ne accorgono. È la durata nel tempo che fa la differenza… Allora i ragazzi capiscono che quello nei loro confronti non è un interesse momentaneo e vedono la verità dell’azione educativa». Resta anche nelle riflessioni accorate e profondissime pubblicate da Monitor, in particolare da quelle di Luca Rossomando e di Antonella Di Nocera: nulla a che vedere con le scialbe analisi che si sono rimbalzate più o meno ovunque. Antonella Di Nocera è molte cose: insegnante, produttrice cinematografica, è stata assessore alla cultura del Comune di Napoli, e a Ponticelli – dove vive – con Arci Movie fin dagli anni Novanta porta avanti progetti di animazione della comunità attraverso il cinema. Dal 2014 coordina FilmaP – Centro per la formazione e produzione di cinema a Ponticelli, che realizza laboratori di cinema con i ragazzi delle scuole del territorio e percorsi formativi di cinema del reale per filmmakers under 30: la terza edizione dell'Atelier di cinema del reale, destinata a otto giovani sotto i 35 anni e promossa sui social con la bellissima immagine del pluripremiato Mario Spada che vedete in copertina, inizierà a brevissimo. Il Cinema Pierrot di Ponticelli, diventato negli anni simbolo di come attraverso la cultura e il cinema sia possibile dare ai ragazzi una possibilità, ha accolto nei giorni scorsi "La scuola che fa la scuola", tappa napoletana della manifestazione itinerante #Conibambini-tutta un’altra storia, promossa dall’impresa sociale Con i Bambini. Per tutte queste ragioni l’abbiamo cercata.

La cronaca ci ha raccontato le baby gang in città e il ragazzo che in provincia di Caserta ha sfregiato la sua insegnante con un coltellino. Poi ci sono i dati statistici, che mostrano come la condizione dei ragazzi al Sud anziché migliorare peggiora. Ma alla cronaca e ai dati, lei ha scritto, «manca la capacità di immergersi nei territori e scoprirvi luce propria»: lei come racconterebbe i ragazzi del Sud, di Napoli e di Ponticelli oggi? Cos’è che non vivendoli non vediamo e non capiamo?

Per un paio di mesi quelle due parole inglesi sono diventate l’emergenza nel Paese. Forse l’effetto forestiero ha riempito la forma di orrore e di appeal. Io invece mi rifiuto di pronunciarle. Sicuramente qualche esperto direbbe meglio di me quanto peso ha nelle dinamiche cognitive il fatto che queste parole vengono diffuse migliaia di volte al giorno. Il linguaggio ci forma, il linguaggio ci guida. Io non credo che i ragazzi del Sud siano diversi da quelli di altre città del mondo, laddove la povertà educativa e l’immersione nelle cultura digitale senza regole ha determinato uno spazio immenso e vuoto di motivazioni e valori. E credo che questi problemi non siano solo dei piccoli. La genitorialità è un tema che sta alla base della povertà educativa delle generazioni degli ultimi venti anni. Molti di questi genitori lo sono diventati loro malgrado e spesso provenendo da famiglie in cui loro stessi, come figli, erano un problema. Quale umanità, quale cura, quale amore sta in molte famiglie di una larga parte di città? Ci sono storie di genitori che hanno ribaltato questo destino, ma molte altre in cui il destino dei figli è perfino diventato più buio perché anche alcuni legami più antichi e tradizionali sono stati spezzati dalla lotta quotidiana del vivere. Ma cosa serve agli adulti per fare i genitori? Il lavoro, ciò che più di tutto può darti dignità e una identità, non c’è e non sai dove cercarlo, lo sappiamo. Allora diventano ancora più decisivi i servizi e la normalità quotidiana di una città che si fa comunità: niente di così speciale, una parola semplice, tanto meravigliosa, quanto tradita. I diritti di cittadinanza: come la scuola, l’ambiente, lo sport, le biblioteche, il trasporto pubblico, gli ambulatori. E quindi al centro della propria vita, quando si è ragazzi, si dovrebbe avere facilmente (e dico non a caso “facilmente”) la possibilità di fare sport, senza che sia un lusso, di andare a giocare in un parco bello, senza che ciò sia impossibile per trasporti o per incuria. L’abitudine a queste cose belle, infondo alla normalità dell’infanzia o dell’adolescenza, è la prevenzione del male.

Io non credo che i ragazzi del Sud siano diversi da quelli di altre città del mondo, laddove la povertà educativa e l’immersione nelle cultura digitale senza regole ha determinato uno spazio immenso e vuoto di valori. Credo che questi problemi non siano solo dei piccoli: la genitorialità è un tema che sta alla base della povertà educativa

Lei è impegnata da molti anni con i ragazzi, in diversi modi: c’è qualche nuovo elemento che va evidenziato?
È nato un mondo nuovo in questi ultimissimi anni, un mondo che non ci aspettavamo e che ci ha colto di sorpresa. Cresciuti con i cellulari come protesi, i nostri ragazzi è come se vivessero più di quanto, nell’epoca non digitale, si poteva vivere nel medesimo tempo. Nella vita riflessa in uno schermo dove si può vedere il male ad ogni istante, si diventa più vecchi e più cinici. Tutti: vittime e carnefici. Negli ultimi anni ho insegnato in una scuola superiore (ma chiunque può osservarlo nei propri figli e nei loro compagni) e c’è qualcosa che somiglia a una sorta di “assuefazione alla morte” in queste generazioni digitali che dovrebbe allarmarci per il modo completamente nuovo di reagire alle emozioni. E dunque, pensiamoci, e guardiamoli questi ragazzi. Non ci accade forse di restare sbalorditi per la loro indifferenza di fronte a episodi gravissimi, come il suicidio del genitore di un compagno di classe, o una lite furibonda tra compagni, come se in fondo, a questo ed altro gli occhi ed il cuore fossero già abituati. Insomma, il male è già vissuto, sotto la pelle. Ma se alzano lo sguardo, e ci vedi l’anima, eccola lì: quanta inaudita e meravigliosa fragilità.

Al centro della propria vita quando si è ragazzi si dovrebbe avere facilmente (e dico non a caso “facilmente”) la possibilità di fare sport senza che sia un lusso, di andare a giocare in un parco bello senza che ciò sia impossibile per trasporti o per incuria. L’abitudine a queste cose belle è la prevenzione del male.

L’esperienza di Arci Movie con i suoi 500 ragazzi al giorno delle scuole nel cinema Pierrot, con i due centri educativi, con i laboratori, FilmaP… perché il cinema si è dimostrato un approccio efficace? Quali sono i tratti peculiari del vostro modello e quali le leve di successo?
L’esperienza di Arci Movie si misura soprattutto su un dato: la costanza nel tempo. Una associazione che è rimasta un collettivo fin dalla sua nascita, nel 1990, con l’obiettivo di usare la passione del cinema per costruire cultura e solidarietà. E in queste parole si racchiude un’idea forte: quella di una comunità che diventa un microcosmo, dove le attività per le famiglie, per i giovani, per i bambini intorno alla socializzazione degli eventi e dei laboratori di cinema, sono parte di una visione che tende allo sviluppo della comunità e a restituire dignità e bellezza anche ad un territorio che sembra condannato a non averne. E questo rimane un punto di riferimento, al di là dei modi e delle forme in cui poi accade che ci si esprima, al di là anche delle risorse che si trovano e che non sono mai stabili, al di là delle persone che cambiano, crescono, vanno altrove. Il laboratorio per realizzare un film nelle scuole o sul territorio è un’esperienza che crea solidarietà, impegno per un obiettivo comune e quindi condivisione. Parteciparvi consente di scoprire il talento che è in ognuno e trovare i modi per rafforzarsi come persone. In questi anni ho ritrovato molti ex bambini dei Movielab sui set di cinema, o in Rai, qualcuno oggi è anche educatore con noi. E quando questi incontri avvengono, sono abbracci emozionanti. Per quanto mi riguarda, credo anche che vedere i film in sala, con gli altri, crea una condivisione che nel tempo lascia una traccia e quelle proiezioni affollate di studenti saranno momenti che si serbano nel cuore. Questa traccia nella vita dei ragazzi, seppur piccola, è il punto di forza del nostro lavoro, ma inevitabilmente è anche il suo punto di debolezza, visto che dei tanti tantissimi che coinvolgiamo non conosciamo sempre i destini.

Vedere i film in sala, con gli altri, crea una condivisione che nel tempo lascia una traccia e quelle proiezioni affollate di studenti saranno momenti che si serbano nel cuore. Questa traccia nella vita dei ragazzi, seppur piccola, è il punto di forza del nostro lavoro, ma inevitabilmente è anche il suo punto di debolezza, visto che dei tanti tantissimi che coinvolgiamo non conosciamo sempre i destini

Nello stare in mezzo alle sfide poste dalla povertà educativa e dalle periferie, quali criticità presenta oggi la scuola? E quali la società civile?
Quello che noi dovremmo aspirare ad avere è innanzitutto una società equa, dove i diritti – quelli di cittadinanza, sopra menzionati, quelli alla qualità della vita – non siano un forse ma una certezza. I diritti creano opportunità e le opportunità la possibilità di riconoscersi e diventare persone migliori. In questo quadro di normalità mancata c’è stato, e faticosamente resta, il lavoro prezioso di quella comunità diffusa di valori e persone impegnate sui territori in progetti di prossimità sociale. Ma è vero, oggi c’è un silenzio pesante, che forse interrompe il filo dei pensieri. Si avverte il peso di questi quasi trent'anni in cui quelle cose “normali”, ma fondamentali, si sono perdute, e appaiono più lontane che mai. Se una parte di città non ha più coscienza dei propri diritti, l’altra città non riconosce il problema come proprio e accorcia le distanze solo quando ha bisogno di alleviare il proprio senso di colpa. Pesa la difficoltà a guardarsi indietro e a riflettere sugli errori commessi.

Oggi c’è un silenzio pesante. Si avverte il peso di questi quasi trent'anni in cui quelle cose “normali”, ma fondamentali, si sono perdute, e appaiono più lontane che mai. Se una parte di città non ha più coscienza dei propri diritti, l’altra città non riconosce il problema come proprio e accorcia le distanze solo quando ha bisogno di alleviare il proprio senso di colpa. Ma se questo vuoto dentro è comune a molti e fa male, allora è lì che bisognerebbe intravedere un segno di ripartenza

Ma se questo vuoto dentro è comune a molti, e fa male, allora è lì che bisognerebbe intravedere un segno di ripartenza. Il ruolo dell’operatore sociale come agente di cambiamento ha senso, e lo dimostrano le tante esperienze che ancora resistono (come alcune Educative Territoriali nate da quella straordinaria stagione iniziata con la legge 285 del 1997) quando riescono a rappresentare una visione più complessa. Quello che non si può più accettare è che le azioni dello Stato, inteso nel suo insieme, siano semplicemente reazioni ai fatti che avvengono. Invece vanno sostituite con una necessaria linea di condotta coerente con una idea di politica educativa e culturale connesse tra loro, di scuola e cultura, come tasselli fondanti di un sistema, consapevole della bellezza del proprio patrimonio di beni materiali e immateriali e al contempo capace di renderne consapevoli i suoi cittadini fin dall’infanzia. Non è un discorso astratto, se si pensa che nelle classi gli insegnanti non arrivano solo con la propria preparazione didattica ma con il proprio bagaglio di persona pregna di “materia viva”: i libri che leggo, i film che vedo, il teatro che frequento, la musica che ascolto, i musei che conosco, i viaggi che ho fatto. Ecco, moltiplicate questo bagaglio per le tracce lasciate negli studenti del Paese e si può immaginare quanta fragilità può divenire bellezza.

Foto di copertina Mario Spada

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