Dovrebbero essere i primi a sentirsi contenti, ma non è così. “Loro” sono gli abitanti di Tor Bella Monaca, borgata della capitale, che il sindaco Gianni Alemanno ha proposto, con una provocazione di fine agosto, di demolire e ricostruire. Quella del sindaco non è stata una semplice boutade. Si è affrettato ad assicurare che esiste un piano e che a ottobre verrà reso noto. Ha spiegato che secondo lui i grattacieli sono malsani perché costruiti male e perché non adatti ad essere abitazioni. E ha anticipato che se il piano passa, Tor Bella Monaca avrà tante abitazioni basse. Difficile dargli torto. Ma allora come spiegare che quel quartiere complicato di Roma, e quasi irraggiungibile con i mezzi pubblici, abbia una pagina su Facebook con 5mila fans (gli abitanti sono poco più di 30mila)? E perché una proposta che porta miglior qualità della vita è stata accolta con tanto sospetto?
Sembrerebbe un atteggiamento poco razionale, invece porta a galla ragioni profonde che oggi non trovano mai cittadinanza, né nei dibattiti né; tanto meno, nelle scelte concrete. A queste ragioni profonde potremmo anche provare a dare un nome sommario, ma indicativo: Tor Bella Monaca difendendo lo status quo, vuole proteggere quei fragili legami comunitari che sono comunque fattori decisivi di una vita vivibile. Un’abitazione non è fatta solo di efficienza, di razionalità, di qualità costruttiva. Per essere compiutamente “casa” ha bisogno d’altro. Ce ne siamo accorti all’indomani del terremoto dell’Aquila di quanto lo spaesamento fosse determinato non solo dalla mancanza fisica della casa, ma dal dissolversi dei legami di vicinato. E quando le case sono arrivate, con una solerzia senza precedenti, non sono bastate a colmare quel vuoto.
Succede così quando si guarda alle persone come ad una somma di esigenze concrete, di bisogni naturali o indotti. Succede ai politici, ma succede anche agli intellettuali e agli architetti stessi, come ha onestamente riconosciuto Stefano Boeri nel corso di un recente forum organizzato da Communitas. Ha detto: «Una grave colpa di noi architetti è stata quella di non avere avuto la forza e la legittimità culturale per raccontare la spazializzazione della società nel territorio locale. Bisogna osservare invece gli indizi che lo spazio locale racconta e descrive. Il problema è che cosa si osserva, che cosa si guarda, di che cosa si parla e quindi che cosa si propone».
Ha ragione Boeri. E richiama l’esempio di uno straordinario architetto brasiliano che nel 1948 venne chiamato a progettare un immenso insediamento abitativo a Rio De Janeiro. Affonso Eduardo Reidy progettando il celebre Pedregulho impose che prima di costruire le abitazioni, venissero realizzati i servizi, la scuola, le parti comuni. Perché senza luoghi che facilitassero la costruzioni di legami, anche l’abitazione più bella sarebbe risultata invivibile. Poi costruì centinaia di appartamenti, tenendo fede a un semplice credo: «Bisogna ottenere non soltanto il comfort ma anche la bellezza, indispensabile a rendere qualsiasi vita umana decente». Se davvero si vuole ripensare il futuro di pezzi di città, questi sono presupposti da rimettere finalmente sul tavolo.
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