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Poliitca. Cronache di una maggioranza che non c’è più

Ieri Berlusconi è andato alle Camere e ha detto "Tutto va bene" ma le cose non stanno così. Lega e Udc sono alla guerra aperta, il governo c'è ancora, la maggioranza del 2001 non c'è più

di Ettore Colombo

ROMA – NOSTRO SERVIZIO Curiosa e insieme appassionante giornata, quella vissuta ieri a Roma, se seguita dai palazzi della politica, dove il governo Berlusconi si è presentato (prima al Senato, in mattinata, e poi alla Camera, nel pomeriggio) per spiegare le motivazioni delle dimissioni del ministro dell’Economia Tremonti (che non sono state spiegate), per parlare di nuova politica economica (in modo confuso) e per dire che la maggioranza è “iù salda di prima” (ore 18,00, Transatlantico) mentre poco dopo il premier dava luogo al consueto siparietto (“Chi non salta comunista gridava festante in piazza Montecitorio, con tanto di saltello del premier in mezzo a una selva di bandiere forziste cammellate dalla Campania). Questa è la sintesi di una giornata lunga, tesa e nervosa che si è conclusa con Berlusconi che saliva sul Colle del Quirinale per riferire al presidente della Repubblica Ciampi. Le cose stanno però in maniera diversa, come s?è visto mercoledì in Parlamento, in una doppia seduta di passione al Senato e alla Camera, con una specie di gioco pirotecnico di divisioni del centrodestra, da come le descrive il premier. Pubbliche accuse e contraccuse. Scenografiche diaspore di ministri dei partiti «ribelli» sparsi in giro per l?emiciclo. Spaccature ostentate, come quando Fini si siede accanto a Nania a palazzo Madama, o serra le mani in grembo allorché i suoi colleghi di maggioranza applaudono Tremonti alla memoria. Attriti semi-rientrati quando a Montecitorio il vicepremier invece s?installa ingrugnito accanto al presidente del Consiglio e accompagna il suo discorso con vigorosi cenni di assenso. Ma i ministri della Lega disertano per tutta la giornata i banchi del governo e chiedono la testa dell?Udc. Mentre Follini e i suoi stendono le braccia sui leggii, tanto per far capire che non si sprecheranno in battimani per nessuno degli alleati, tranne che per un?ovazione autoreferenziale alla fine del discorso dello stesso segretario. Ovazione che cade nel gelo, perché alle tre del pomeriggio è avvenuto l?evento-clou. Sembrava in quel momento che questo mercoledì 14 luglio, giorno della presa della Bastiglia, dovesse essere il loro giorno da leoni, dopo la bomba politica del voto dei parlamentari dell?Udc in Commissione di vigilanza Rai, sintonizzato assieme al centrosinistra. Voto che risuona come uno schiaffo. Per due ragioni. Perché riguarda gli «interessi» e le «faziosità» nel servizio pubblico, come dirà con un rapido, urticante, accenno Follini. E perché è caduto proprio in mezzo tra i due discorsi, quasi identici, pronunciati da Berlusconi. I due testi, comprese le correzioni apportate a Montecitorio con il chiaro intento di non fare adontare Fini (Tremonti nella seconda stesura non è stato più sacrificato al conflitto «con un partito», ma a una generica «divisione interna» alla coalizione) sono probabilmente frutto della penna curiale di Gianni Letta. Aria fritta e ben compressa, o meglio caute aperture e toni bassi. Recitazione soporifera di un poco convinto premier alle prese con l?arduo confezionamento dell?ennesimo spot. Che doveva obbligatoriamente contenere: cinque minuti di complimenti al dimissionato Tremonti, una pioggia di autoincensamenti per il «successo» e la «prova di saggezza» – testuale – all?Ecofin. Affermazioni come: i conti pubblici «sono a posto», impegni iper-ottimistici ad andare avanti con una «proposta di grande respiro». Il tutto salutato al Senato da sbadigli e alla Camera da salve di applausi sfottenti – forse troppo quantomeno tali da far imbestialire Casini – da parte dell?opposizione (Realacci e Bindi in testa). La verifica è stata «tormentata», ma l?obiettivo è la «stabilità», si scalda Berlusconi. Ma alle cinque della sera – orario tipico per una sanguinosa disfida – il segretario dell?Udc tiene alla Camera il discorso più atteso: noi dell?Udc abbiamo il «dovere di pungolo e di critica» nella maggioranza, «non siamo nè congiurati nè saltafossi», «l?interim si chiuda al più presto». E soprattutto: continueremo così. E la coesione della maggioranza non si ottiene con «richiami alla disciplina». Nella maggioranza, per commentare quest?uscita non si trova uno che sia d?accordo con il proprio compagno di banco. Ignazio La Russa si inchina mellifuo: «Marco è stato tanto chiaro che non sembrava democristiano, senza offesa». «Marco nel suo intervento ha tenuto il punto», banalizzerà invece Gianfranco Fini, che ha impiegato la serata a volantinare in giro per il Parlamento un suo articolo che compare oggi in prima pagina sul Secolo d?Italia: tutti i leader della Casa della libertà (Marco Follini compreso) entrino nel governo, è la proposta, che con un grande giro di bigliettini portati personalmente ai banchi degli alleati dallo stesso vicepremier e dai commessi, dovrebbe fare scendere la tensione. Ci si scambiano veleni, Fini è strumentale, vuol coprire il suo dietrofront, dicono i democristiani. Follini s?è impaurito, vedrete, rispondono da An. Roba da Prima Repubblica, digrigna i denti Berlusconi. Si sopravvive fino a domani (cioè oggi), quando l?Udc tiene il suo ufficio politico, dove è ancora all?ordine del giorno la proposta di «appoggio esterno». Ed è improbabile e persino statutariamente impossibile secondo le regole interne all?Udc sulle incompatibilità, che Follini ritorni sul suo rifiuto di una poltrona ministeriale, quantomeno. Ma per ora ci si accontenta, in latino primum vivere: bisogna passare la nottata. Che non scorre via facile. Anche perché anche il presidente Casini ci ha messo del suo, leggendo a un tratto un elenco di parlamentari neo-eletti a Strasburgo che non comprende il nome di Follini: «…si tratta di coloro che mi hanno già dato comunicazione scritta dell?opzione» (D’Alema, ecc), e nell?aula s?è sparso subito un certo sentore di veleni. La parte della bocca della verità l?hanno recitata, in questo mefitico marasma, i più rudi leghisti. Calderoli (14,30) e Maroni (14,38): «Il premier ci dica qual è la maggioranza dopo il voto dell?Udc in vigilanza, o Berlusconi recupera, o si va al voto anticipato, prenda atto che non c?è più una maggioranza che possa realizzare il programma ambizioso che ci ha illustrato». È l?epigrafe per una maggioranza dissolta, che è stata scolpita dai due «Bibì e Bibò» del Carroccio, come li battezzerà Piero Fassino, riesumando un fumetto noto agli ultracinquantenni (in tema, Gavino Angius al Senato s?era chiesto come mai in questo film alla Walt Disney, Berlusconi non spieghi neanche perché mai «Gastone» sia stato licenziato dal ministero dell?Economia). Ottantamila miliardi di manovra prossima ventura, stangate colossali, altro che conti in regola e sgravi delle tasse. La maggioranza non c?è più. Berlusconi, in serata, al Quirinale ci è salito, ma non per dimettersi. Ha proposto a Ciampi il menu di una verificaa infinita. Probabilmente gli ha chiesto qualche aiuto. E il capo dello Stato, che si sappia, ha mantenuto il suo glaciale aplomb istituzionale, convocando per oggi una colazione di lavoro con Pier Ferdinando Casini e Renato Pera. Mercoledì s?intrecciavano i colloqui, sul far della notte: Casini ha visto Draghi, ex-direttore del Tesoro, e tutti subito non mancavano di far notare che il «tecnico», anche lui papabile per succedere a Tremonti, risulta nella lista dei «Ciampi-boy». Ma il problema vero è che con quel pessimo bagaglio di «conti truccati» (Fini dixit), nessuno vuole il posto di Tremonti. E si ha la sensazione che dopo tante mani di poker truccate si sia passato al giro disperato dei bluff. Si gioca con le rime: fratelli coltelli, alleati avvelenati. Ora ci si aggrappa allo «schema Fini», con i segretari dentro al governo, e per capirci se davvero si scorge qualche spiraglio Berlusconi e Fini si sono rivisti a quattr?occhi. Ma s?era fatto tardi, molto tardi, forse anche per la sopravvivenza della stessa maggioranza, se non del governo.


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