Politica

Poletti: «Vi spiego come cambierò il welfare»

Un anno dopo la sua nomina, il ministro Giuliano Poletti è pronto a lanciare la fase due del suo mandato. In questo dialogo spiega quali saranno le priorità. Partendo dal casellario dell’assistenza fino alla riforma del Terzo settore: «L’impresa sociale serve per creare nuova occupazione»

di Redazione

Sarà il suo pragmatismo da figlio di un ex mezzadro della bassa Romagna («vivevamo tutti insieme, in famiglia eravamo in 16 – comprese due cugine rimaste orfane – in una grande casa in un paesino a 25 chilometri da Imola. Quando finalmente mio padre e i suoi fratelli riuscirono a comprare tutta l’azienda, per noi fu l’emancipazione dalla miseria»). Sarà che sull’impatto sociale sta costruendo uno dei passaggi qualificanti del suo mandato («quello della riforma del Terzo settore»). Sarà la sua matrice da cooperatore tecnico agro-enologico («quella era e rimane la mia professione»). Ma se mettiamo sulla bilancia le parole di un’ora e passa di conversazione con Giuliano Poletti nello studio al secondo piano di palazzo Biagi, la sede del ministero del Lavoro e del Welfare, ce n’è una che pesa di gran lunga più delle altre. Misurare. Misurare per conoscere. Conoscere per essere in grado di modificare in corso d’opera leggi o provvedimenti che non generano l’efficacia attesa. E questo vale innanzitutto per il ministero stesso. E a caduta per Jobs Act, Isee, Inps, sistema socio assistenziale, nuova impresa sociale, Garanzia Giovani, lotta alla povertà e così via. L’occasione dell’intervista era quelle di fare il punto a un anno della nomina a ministro. Poletti però, più che guardare indietro, ha voluto dettare la sua agenda per i prossimi mesi: in primis il casellario del welfare che lancerà a giorni. È significativo però riavvolgere la pellicola alle 24 ore precedenti il 21 febbraio 2014. La data della sua nomina. «Faresti il ministro con me?». Era Renzi. «Ci eravamo incontrati un paio di volte, io facevo il presidente di Legacoop, lui il politico». E allora come si spiega quella scelta? «Io ho un’idea di economia sociale e solidale fondata sulla partecipazione dei cittadini. Pensavo e penso che anche quando uno Stato è buono dovrebbe fondarsi e fidarsi dell’azione dei propri cittadini. Veniamo da una cultura nella quale si crede che dobbiamo sempre dire alle persone cosa è bene che facciano. Il Tfr per esempio: te lo diciamo noi dove lo devi mettere. E perché? Stiamo parlando a persone adulte, o no? Questa idea di intrusione non mi è mai appartenuta. La mia idea di società e di vita è un’altra. Con Renzi, prima della mia nomina, ho discusso e non certo di Jobs act o di politiche attive del lavoro, abbiamo discusso esattamente di questo».

Questo è il suo ufficio da esattamente un anno. Si dia una pagella. Cosa ha funzionato e cosa no?
Le pagelle le danno gli altri. Io le posso dire di essere soddisfatto. Oggi si parla tanto del Jobs Act, ma la legge delega sul Terzo settore è altrettanto importante. Insieme al ministero dello Sviluppo economico abbiamo dato una prospettiva a molte crisi aziendali. Poi ci sono una serie di questioni che non guadagnano le prime pagine, ma non sono di poco conto. Quando sono arrivato per gli ammortizzatori sociali in deroga non c’erano soldi. Rimediare è stato molto complesso. Però ce l’abbiamo fatta. E ora faremo un decreto per assegnare nuove risorse. La mia è una valutazione positiva. Consapevole degli inevitabili limiti di ogni azione e del fatto che nessuno “nasce imparato”. Poi c’è la squadra del ministero, che ho contribuito a formare. Io non sono in grado di scrivere una legge. Posso avere anche un buono spunto, ma se poi non ho chi me lo traduce in norma,
vado poco lontano.

Veniamo alle note stonate…
Su un punto dobbiamo migliorare: la capacità di programmazione e di organizzazione. Per due ragioni. La prima è che lavorando con l’urgenza che è necessaria in questo momento, il rischio di commettere errori inevitabilmente si alza. Poi abbiamo la necessità di saper valutare i risultati avendo la capacità di cambiare rotta, se serve.

Come nel caso del nuovo Isee, che il Tar vi ha bocciato affermando che i contributi assistenziali non sono reddito?
Non sarei così affrettato. Il lavoro sul nuovo indicatore va accreditato al precedente governo e in particolare al viceministro Cecilia Guerra. È stato un lavoro difficilissimo. Gliene va dato atto. Noi lo abbiamo ereditato e messo in campo. Ora c’è questa sentenza del tribunale amministrativo. Ad oggi però non abbiamo ancora ricevuto la notifica. Abbiamo però già incominciato a svolgere un approfondimento giuridico-legale. Perché qualsiasi sarà la decisione finale dovrà essere motivata e non dovrà essere presa per ragioni politiche o ideologiche, né favorevoli, né sfavorevoli.

Con la nomina Boeri l’Inps entra in una nuova fase. Ad oggi sul versante dell’aiuto sociale ci sono troppe duplicazioni fra i sostegni dell’Inps e quelli territoriali dei Comuni. Inoltre c’è una certa opacità dell’ente rispetto alla gestione delle risorse. Qual è il mandato di Boeri? Come si può far chiarezza?
In questi giorni porteremo in Gazzetta Ufficiale l’approvazione del decreto che istituisce il casellario dell’assistenza (anche se il nome non mi piace granché, vediamo se riuscirò a modificarlo): avremo una grande banca dati nella quale ci saranno tutti gli interventi di tipo sociale che interessano un cittadino. Sapremo cosa fa l’Inps, cosa fa la Regione, cosa fa il Comune, cosa fa qualsiasi altro soggetto coinvolto. Da quel momento in poi tutti gli enti avranno la possibilità e il dovere di conferire le loro banche dati al casellario. Poi lei parla di opacità dell’Inps. Non sono d’accordo. In Italia abbiamo assegnato a questo istituto mestieri molto diversi: la estione previdenziale e quella dei supporti sociali. Si può fare, per carità. Con la consapevolezza però delle difficoltà che questa scelta comporta nel mantenere certi i confini fra intervento previdenziale e intervento sociale. Ciò detto noi abbiamo chiarissimo in testa che dobbiamo intervenire sul piano delle politiche sociali e su quello delle politiche attive del lavoro partendo da un dato: i casi di problematicità sociale per il 70/80% sono figli di mancanza o perdita di lavoro…

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