Poesia in versi, roghi e pugni. I rom e Paul Polansky

di Marco Dotti

Paul Polansky è antropologo e  poeta. Ma è anche un cooperatore internazionale ed è stato persino un pugile. Cinquant’anni fa lasciò gli Stati Uniti e scappò in Spagna. Erano gli anni della coscrizione di massa e della guerra in Vietnam. Da quando ha lasciato gli Stati Uniti, Polansky si è messo a cercare. Che cosa? All’inizio non lo sapeva nemmeno lui, poi ha intrapreso un viaggio sulle sulle origini della propria famiglia. Come spesso capita, quando cerchi una cosa, ne trovi altre che nemmeno immaginavi. Così Polansky ha scoperto documenti importanti, che hanno permesso di ricostruire l’esistenza e il funzionamento del campo di concentramento di Lety, nell’attuale Repubblica Ceca.

Poi Polansky inizia un altro viaggio. È il 1999, c’è un’altra guerra, stavolta in Kosovo. Lui è chiamato dalla Nazioni Unite intermediario tra le istituzioni e i gruppi rom perseguitati. Per undici anni continuerà a lottare contro le discriminazioni nei confronti dei rom.  

Oggi vive a Nish, in Serbia, dove prosegue la sua attività per i diritti umani, tramite l’associazione Kosovo Roma Refugee Foundation, ma non ha smesso di tirare pugni. A lui, e in occasione del suo arrivo a Milano, l’associazione PluriVersi dedicherà uno “Slam Poetry” il prossimo 10 aprile (presso l’ ARCI Martiri di Turro, via Rovetta 14 – MILANO, informazioni → QUI).

Paolo Melissi descrive così i versi di Polansky: «sono pugni quelli che assesta per il tramite delle poesie che scrive, dando voce alla voce di chi non può parlare a tutti: i Rom dell’Albania, o della Serbia . Paul, infatti,  conduce la sua ricerca e dove dirige la  Mission for Kosovo Roma Refugee Foundation. La sua opera poetica è solo in parte tradotta in italiano, mentre è del tutto inedito il suo romanzo The storm».  E Valentina Confido traduce così, per noi, quei “pugni”, tratti dalla poesia The Well (in the voice of a young Romani man):

IL POZZO

Mi presero al mercato

dove la mia gente una volta vendeva vestiti,

e dove ora gli Albanesi praticano il contrabbando.

Quattro uomini mi gettarono sul sedile posteriore

di una Lada blu, urlando “Lo abbiamo detto,

niente zingari a Pristina.”

Mentre mi spingevano giù sul fondo,

sentivo la canna della pistola sull’orecchio sinistro. Era così fredda

che sussultai proprio mentre qualcuno premette il grilletto.

Il sangue mi schizzò su un lato della faccia

dalla ferita sulla spalla.

Caddi, fingendomi morto.

Pregai la mia amata madre morta, tutti i

mulos1, affinché questi uomini non si accorgessero da dove

fuoriusciva il sangue. Quando arrivammo,

mi tirarono fuori per i piedi. La testa si schiantò

sul terreno, rimbalzando sulle pietre.

Mi gettarono a testa in giù in un pozzo.

Non raggiunsi mai l’acqua.

C’erano troppi corpi.

Giacevo rannicchiato, quasi incosciente

finché la puzza e il bruciore della calce viva

non mi fecero rinvenire.

Trattenni il fiato finché non sentii

ripartire la macchina, ma poi soffocai

per il fetore che mi circondava.

Con una sola mano, mi trascinai

aggrappandomi a gambe rigide

che mi fecero da scala per arrampicarmi.

La faccia, le mani, tutto il mio corpo

bruciava per la calce. Usai dell’erba

per pulire quello che potevo,

poi barcollai giù per una strada sporca

verso una lunga fila

di luci che si muovevano lentamente.

Venti minuti più tardi ero sull’autostrada

guardando i camion e le jeep verde oliva,

che mi passavano accanto come se fossi un palo del telefono.

Alla fine crollai davanti a due fari.

Non so dire se l’ultimo rumore che sentii

fu uno stridio o un grido.

Il giorno dopo in un ospedale militare

qualcuno della NATO mi interrogò per alcuni minuti.

L’interprete albanese fece sorridere i soldati.

A mezzogiorno stavo camminando

attraverso un bosco seguendo un sentiero per carri

che nessuno usa più,

tranne gli zingari

che fuggono da un paese

in cui hanno vissuto

per quasi

settecento anni.

 

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