Cultura

Pizzul: «La radio in Italia? Novant’anni ma li porta bene»

Fabio Pizzul spiega come mai il medium radiofonico riesca a mantenersi giovane. Lancia però un appello alla Rai: «Riscopra le mille realtà territoriali sparse nel Paese»

di Redazione

Novant’anni di radio in Italia. È tempo di bilanci, certo, ma soprattutto di riflessioni sul futuro di un mezzo di comunicazione che, per unanime convinzione, vive da un buon decennio una stagione di rinnovata giovinezza. Fabio Pizzul, oltre ad essere un consigliere della regione Lombardia, ha diretto fino al 2010 Radio Marconi –emittente della Diocesi di Milano e dei Paolini- ed insegna Storia della radio alla Cattolica di Milano. È la persona giusta alla quale rivolgersi per una chiacchierata ad ampio raggio sull’argomento. 
 
Si dice spesso che la radio, data per defunta più volte, viva in realtà un momento di grande freschezza. Condividi?
«Sì, perché la radio riesce a conservare degli spazi di sperimentazione che altri media non hanno. Rispetto ad altri settori -dove è più pesante il meccanismo produttivo e sono più influenti i grandi investimenti- ha una leggerezza di fondo, sia produttiva sia di possibilità di ricerca. Sono convinto che, a differenza di altre realtà comunicative, col tempo riuscirà a scollinare questa faticosa salita della crisi». 
 
La radio, come la tv, è stata assorbita dagli smartphone e da altri strumenti tecnologici che ognuno di noi si porta dietro nelle tasche. Però della televisione non si dice che sia un medium giovane…
«Perché la radio, a differenza della tv, conserva il fascino del solo suono. Le immagini tentano di raccontare tutto ma sono fin troppo esplicite, non lasciano quella possibilità di far lavorare l’immaginazione, non danno l’opportunità di costruirsi personalmente un immaginario. Il rischio, in questa epoca di disincanto in cui viviamo, è convincerci che abbiamo già visto tutto e già fatto tutto: è un errore, in questa maniera invecchiamo prima. La radio forse, col suo apparato di giovinezza, può restituirci la voglia di pensare al futuro». 
 
Radio Rai fa bene il suo mestiere di servizio pubblico? Potrebbe fare di meglio?
«Beh oddio di meglio si può sempre fare. Devo dire che rispetto a un decennio fa sta cercando comunque di rimettersi in gioco in maniera più reale. Quello che potrebbe fare Radio Rai è mostrare maggiore attenzione ai diversi territori dell’Italia. Il rischio è essere un po’ accentratori, guardare sempre e solo a Roma, dimenticando che la ricchezza del nostro Paese sono le cento e più voci che provengono dalle realtà meno conosciute. La radio –soprattutto Radio Rai- questo ha saputo farlo, soprattutto nel secondo Dopoguerra, mentre oggi fa un po’ fatica a recuperare quello spirito. Ecco, raccontare le tante Italie sarebbe un buon esempio di servizio pubblico».
 
Il successo di programmi come La zanzara e Un giorno da pecora preoccupa una parte dell’opinione pubblica. Tu cosa ne pensi?
«Secondo me sono due programmi diversi. La zanzara sta diventando una congerie di luoghi comuni imbarbariti. Su Un giorno da pecora credo di poter dare una lettura maggiormente benevola: c’è un po’ più di pensiero alla base, anche se a tratti diventa satira di non altissimo livello. La zanzara si sta appiattendo su un trash quotidiano che rischia di diventare esclusivamente sberleffo; Un giorno da pecora, al contrario, mi auguro che possa mantenere quel filino di creatività. Dietro un buon programma, io di questo ne sono convinto, deve esserci sempre alla base uno spazio di riflessione e di arguzia».
 
Il punto è che dicono di ispirarsi ad Alto gradimento, ma sinceramente il programma di Arbore e Boncompagni era tutto un altro pianeta…
«Senza dubbio Alto gradimento era ben altra cosa. Al di là della straordinarietà dei personaggi che andavano in onda, dietro quel programma  c’era un’intuizione dissacrante ma nel contempo la volontà di creare qualcosa di nuovo. Oggi invece siamo innamorati della provocazione continua, che però rimane fine  se stessa. Questo stile di conduzione così indisponente alla lunga ha il respiro corto, come dimostra il flop dell’approdo televisivo di Cruciani e Parenzo». 
 
La musica in radio. Finirà prima o poi lo strapotere di alcune case discografiche, che impongono i propri brani lasciando poco o niente ai produttori che non hanno il loro stesso potere?
«Guarda io sono abbastanza fiducioso sulle potenzialità della rete in questo senso. Il web veicolerà dei prodotti  che potranno andare anche oltre i diktat dell’industria musicale stessa. Secondo me, con una buona dose di coraggio e di costanza, si apriranno in futuro degli spiragli interessanti.
 
Rispetto a quando eri ragazzino, la radio ha perduto un po’ di smalto nel raccontare gli eventi sportivi?
«Credo che la radio restituisca ancora il fascino dell’evento sportivo. C’è però una differenza rispetto al passato: se una volta si cimentavano nelle cronache personaggi di grande spessore culturale e di grande rilevanza anche dal punto di vista professionale, l’impressione è che oggi abbiamo un po’ perso queste figure di alto profilo. Mentre in passato la radio era vista dai professionisti come un punto di arrivo, oggi viene più vissuta come un punto di passaggio verso l’approdo televisivo. Fermo restando che in radio lavorano anche persone molto competenti, degne di lode». 
 
Parliamo delle radio libere negli anni Settanta. Hai un aneddoto personale legato a quel periodo?
«In casa Pizzul eravamo fruitori abituali delle radio libere. Io poi abitavo in un quartiere in cui è nata Radio Milano International, quindi ho visto proprio da vicino quella stagione pionieristica. Le radio libere erano una presenza diffusa in città. Per me erano oggetti misteriosi, mi incuriosivano molto; chi le manovrava con sapienza appariva ai miei occhi di bambino come un apprendista stregone, uno scienziato dell’etere». 
 
Concludiamo con Radio Maria. In molti storcono il naso, ma la verità è che si tratta di un evergreen, un successo senza tempo.
«È vero, alcuni guardano con sospetto a questo  enorme segmento della popolazione, che trova conforto attraverso l’ascolto di Radio Maria. Bisognerebbe essere meno snob, rispettare quella vastissima fascia –soprattutto uomini e donne over 65- che riescono a superare la solitudine e il peso degli anni proprio attraverso l’ascolto della preghiera. Non solo queste persone meritano rispetto come tutte le altre, ma inoltre bisogna prendere atto che tra non molto, in Italia, gli anziani saranno la maggioranza. Avrà qualche diritto questa maggioranza, sì o no?». 
 

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