Cultura
Pillole milionarie. Parla lex direttore di Farmindustria
Lindustria farmaceutica vista da vicino. Intervista a Ivan Cavicchi che, dopo le dimissioni, racconta le ragioni della sua scelta.
C?è il sindacalista della Cgil che, ventenne, occupa il tetto di un ospedale capitolino per protestare contro i locali insalubri. C?è il direttore generale di Farmindustria, furioso contro i politici che scaricano sulle aziende farmaceutiche tutta la responsabilità di salvare l?Africa dall?Aids e di mediare fra etica ed economia. E poi c?è l?Ivan Cavicchi 53enne che, un assolato pomeriggio di marzo, nel suo ufficio di Roma, scuote la testa di riccioli bianchi e confessa: «Adesso voglio fare interferenza».
Adesso vuol dire «dopo 35 anni di impegno e di ideali dedicati al mondo della medicina e della sanità, in cui esiste un problema di assenza di pensiero». La frase, amara, con cui il 20 marzo ha spiegato alla stampa le sue dimissioni da Farmindustria.
Vita: E fare interferenza cosa vuol dire, dottor Cavicchi?
Ivan Cavicchi: Smuovere le acque, innescare un pensiero nuovo sulla salute e sulla medicina. Pensiero che, nella politica di destra e di sinistra, non c?è. Si muove qualcosa solo nel mondo cattolico, e lo dico da laico. Farò interferenza dalle pagine di Keiron, il giornale che ho fondato e che Farmindustria mi ha ceduto. A coprire i costi, per il momento, c?è solo la mia liquidazione.
Vita: E i pensieri che mancano, quali sono?
Cavicchi: Quelli che servono a realizzare l?ideale per cui mi batto da sempre: l?emancipazione della persona. Dal dolore, dalla malattia, dalla morte precoce. Emancipazione intesa come liberazione dagli svantaggi. Prendiamo il diritto alla salute: una volta lo si intendeva come diritto naturale e lo si garantiva controllando il paziente, oggi invece va inteso come diritto civile e va costruito con il paziente, nella comunità, nella società civile. E pensando ai modi in cui in futuro potrebbe essere negato.
Vita: Cioè quali?
Cavicchi: L?accesso alle terapie, per esempio. Non è un problema solo dei Paesi in via di sviluppo: loro non possono permettersi i farmaci anti Hiv e anti malaria, noi rischiamo di non poterci permettere quelli personalizzati. Le medicine, per intenderci, adattate al patrimonio genetico di una persona e che curano solo lei. Ottime, perché non avranno effetti collaterali. Ma care: si parla di 30 milioni a trattamento.
Vita: Intende che le aziende farmaceutiche immetteranno sul mercato solo medicine su richiesta per curare le malattie di chi può permettersele?
Cavicchi: Non proprio. Le prime cause di morte sono ancora le malattie cardiovascolari e le neoplasie: finché esistono, la ricerca continuerà a occuparsene. Ma se non adeguiamo le coperture di welfare in tempo, rischiamo di discriminare fra ricchi e poveri.
Vita: Le industrie farmaceutiche che ruolo giocano nella mediazione fra etica ed economia? Davvero i prezzi delle medicine sono giustificati dagli investimenti per la ricerca? Risponda da sindacalista?
Cavicchi: Sì, altrimenti non ci sarebbero fusioni fra multinazionali: tagliano i costi e investono su nuovi prodotti.
Vita: Eppure associazioni come Medici senza frontiere e Oxfam hanno dimostrato che gli investimenti per alcuni farmaci anti Hiv, come il Combivir, si recuperano in meno di 20 anni, la durata dei brevetti sui farmaci.
Cavicchi: Non si può generalizzare, i costi sono diversi. Ma una cosa è certa: il processo di Pretoria per l?accesso ai farmaci anti Hiv in Sudafrica, per le aziende è stato un trauma. Con effetti positivi: hanno capito che c?è bisogno di un?etica nuova e che la salute è parte di un obiettivo più grande, la vita. L?interesse legittimo di un?industria farmaceutica è parte di un interesse più grande per la salute. Noto nella gente una grande domanda di vitalità, che va oltre il concetto di salute e di benessere. Una domanda di biofilia, come dice l?amico filosofo Francesco Bellino. Una richiesta che è innanzitutto di autonomia da parte del paziente.
Vita: Non sarà che è diventato un po? new global?
Cavicchi: Ho conosciuto un vecchio contadino che diceva: «Se mangi ricotta non sei forte, se mangi le fave sei forte». Quando lavorava per gli altri mangiava ricotta, sul suo campo le fave. Non servono grandi gesti di massa, per interferire. Credo nell?impatto delle scelte personali. E sono convinto che l?eticità del farmaco debba essere un?eticità diffusa. Oltre al produttore, insomma, che è etico perché deve fare un farmaco che non è tossico e secondo precisi parametri, deve essere etico chi prescrive il farmaco, dal medico all?azienda sanitaria. Per questo uno dei settori in cui voglio interferire è l?università: alla fine, chi decide di un malato, è il medico.
Vita: E la società civile? Crede che, col federalismo, possa contribuire a estendere l?eticità del farmaco e dei servizi offerti ai cittadini?
Cavicchi: Solo se il federalismo viene davvero interpretato come ridistribuzione del potere dallo Stato alle associazioni e non solo dallo Stato alle Regioni. A cosa serve trasferire il potere da un ministro a un assessore se le politiche non cambiano? Un federalismo senza progetto sociale, ai cittadini non serve. Anzi, fa danni: come il recente taglio sui livelli minimi di assistenza. Sul fatto che la società civile debba assumere un ruolo più importante per emancipare le persone con la medicina, non ho dubbi.
Vita: Di nuovo l?emancipazione, il suo ideale. Ci ha lavorato come sindacalista, scrittore, professore e infine come direttore generale di Farmindustria. In quale ruolo si incide di più?
Cavicchi: Sono entrato nel mondo della sanità a 18 anni. Come tecnico di radiologia, perché vengo da una famiglia povera e per pagarmi l?università ho dovuto lavorare. Risalgono a quell?epoca alcune delle battaglie più belle, come quelle sui diritti del malato: tutte le mattine, usavo i citofoni nelle camere dei pazienti per informarli sulla vita dell?ospedale. Poi mi sono battuto contro il precariato, le camere a pagamento e molto altro ancora. Tutto è utile per far avanzare un ideale, riuscirci però dipende dal potere che hai. Se ne hai tanto, gli ideali avanzano di più.
Vita: Per questo dal sindacato è passato alla Farmindustria?
Cavicchi: Quando mi ipotizzarono il salto, avevo appena finito di scrivere Leggere attentamente le avvertenze, una battaglia civile. Non sono mai stato un?anti industrialista, uno per cui l?economia è nemica dell?etica, tutto il contrario. Credo nel valore sociale dell?impresa, l?etica senza economia non si può fare. Ma confesso che ero perplesso. Chi mi convinse, mi fece ragionare su un problema: con farmacopoli, la sanità aveva perso 20mila addetti in un anno ed era precipitata nel baratro, non c?erano più finanziamenti. Diciamo che me la intortarono in questo modo (ride): se accettavo, salvavo l?Italia. Era un?impresa molto affascinante, si trattava di rimettere in piedi un settore strategico. L?unico che abbia mai avuto l?ambizione di interferire sul destino degli uomini.
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