Adeguamento tariffe
Piemonte, le voci dei cooperatori sociali: «Ci stiamo giocando il futuro del welfare»
A Torino, in un Consiglio regionale aperto, 70 delegati di Federsolidarietà e Confcooperative Sanità Piemonte si sono interrogati sulla questione dell’adeguamento delle tariffe:«Se non arriveranno risposte, siamo pronti a scendere in piazza»

«Siamo stati la stampella del pubblico per molti anni, ma il peso da sostenere è diventato troppo grande. Ora la stampella si è spezzata». È l’immagine più efficace per raccontare la seduta di questa mattina del Consiglio regionale di Federsolidarietà e Confcooperative Sanità del Piemonte, eccezionalmente aperta a cooperative e sindacati e a chiunque volesse interrogarsi sul futuro del welfare. L’ha illustrata Enrico Pesce, presidente Confcooperative Federsolidarietà Piemonte, davanti a 70 delegati da tutta la regione (da Novara ad Asti fino a Biella). Nella sede di Confcooperative a Torino, un gruppo di cooperatori sociali che insieme rappresentano più di 10mila lavoratori (la metà degli operatori sociosanitari che in Piemonte fanno capo alla rete) ha dato voce a un malessere che sta assumendo i contorni di una preoccupazione incalzante.

Il rischio – concreto – è quello di cui stiamo scrivendo nelle ultime settimane, a partire dalla provocazione “Provate a fare senza” lanciata sul numero di marzo del nostro magazine (se sei abbonato si legge qui, se non lo sei ancora trovi tutte le informazioni a questo link). Dalle cooperative sociali piemontesi il messaggio arriva forte e chiaro: «senza un adeguamento delle tariffe, molti dei servizi considerati essenziali dai cittadini saranno costretti a chiudere». Assistenza agli anziani, disabilità, psichiatria, tossicodipendenze, minori, infanzia: sono tutti gli ambiti del welfare a essere coinvolti da una empasse che si protrae da mesi.
Approvato un anno fa, il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro delle cooperative sociali ha previsto per tutti i soci lavoratori un aumento delle remunerazioni di circa il 15%, da raggiungere per step entro il 2026. Il giusto riconoscimento economico per professioni che unanimemente vengono riconosciute come delicate e indispensabili si è tradotto da subito in una progressiva crescita degli importi in busta paga ma non in un adeguamento nelle gare d’appalto, affidamenti e sistemi di accreditamento da parte della pubblica amministrazione.
Riassunto delle puntate precedenti
Nonostante l’impegno dell’Osservatorio paritetico regionale sugli appalti e sugli accreditamenti territoriali (organismo di cui fanno parte le centrali cooperative e le organizzazioni sindacali, nda) e nonostante le richieste inviate dalle centrali e dalle singole cooperative ai vari interlocutori, le risposte sono state differenziate e spesso frammentate. È la denuncia di Confcooperative, che la scorsa settimana ha lanciato l’allarme in un comunicato (ne abbiamo scritto qui).

A maggio la Regione ha sottoscritto il Patto per un Welfare innovativo e sostenibile con le associazioni di categoria dei presidi residenziali. «Le parti indicate», si legge nel documento, «hanno condiviso l’aumento per il 2024 della sola quota sanitaria per i posti accreditati e convenzionati con il Sistema sanitario regionale delle strutture residenziali pari al 3,5%». Ma secondo le stime di Federsolidarietà, «non basta, anche perché nessun aumento è previsto invece per i servizi socio sanitari semiresidenziali ed educativi».
«Qui si gioca il futuro del welfare»
Nel Consiglio aperto di questa mattina, l’esasperazione è emersa in un coro di voci e in un impeto di mobilitazione collettiva che ha un valore quasi storico. Non è scontata una battaglia in cui i datori di lavoro e i sindacati condividono lo stesso fronte. Per Mario Sacco, presidente regionale Federazione Sanità, «per mantenere un’assistenza di qualità ai più fragili, devono essere riconosciuti gli adeguamenti, altrimenti si rischia la crisi non soltanto delle cooperative ma di tutto il sistema». Irene Bongiovanni, presidente Confcooperative Piemonte Nord, ha definito quella piemontese «un’emergenza. Trasformiamola in un’opportunità per interrogarci sul futuro del welfare e assumere uno sguardo di prospettiva: questa è la fase in cui si decideranno le politiche di domani, dobbiamo portare le nostre competenze, essere interpreti di questo cambiamento».
Il presidente di Federsolidarietà/Confcooperative Stefano Granata ha posto l’accento su quello che sta accadendo in altre zone d’Italia: «In alcuni territori il ghiaccio si è rotto e si sono trovati degli accordi. Il Piemonte si sta rivelando un terreno difficile, ma non deve spaventare un po’ di conflittualità. Il fronte comune è il segnale che oltre non possiamo andare: non si tratta soltanto di una rivendicazione salariale, ma di offrire un miglior servizio al cittadino».
I numeri
Luca Facta e Maurizio Serpentino, rispettivamente responsabile Relazioni industriali e sindacali e vicepresidente di Confcooperative Federsolidarietà Piemonte, hanno messo sul tavolo i numeri. «Ai circa 55mila occupati del comparto pubblico sanitario si aggiunge un totale di occupati in tutte le imprese che operano nel socio sanitario e socio assistenziale pari a 50mila persone. Di questi, oltre 30mila sono occupati nelle cooperative: soltanto le aderenti a Confcooperative Piemonte contano 20.300 addetti. L’aumento del costo del lavoro è di 70 milioni di euro, che si traduce in un impatto sul fatturato pari al 65%», spiegano.
Un passaggio culturale
Secondo la maggior parte dei relatori, «c’è un problema culturale di comprensione del nostro ambito. Il welfare è un perfetto sconosciuto a volte anche per gli addetti ai lavori. Serve un cambio di paradigma. Non vogliamo più essere stampella del pubblico però dobbiamo imparare a camminare con le nostre gambe, a co-progettare con il pubblico e a tornare alle spinte ideali che ci hanno fatto immaginare i servizi negli anni ‘70, ‘80 e ‘90, altrimenti saremo soltanto venditori di manodopera».
Francesca Delaude di Cgil Piemonte, vicepresidente dell’Osservatorio paritetico regionale sugli appalti e sugli accreditamenti territoriali, aggiunge: «Questa non è soltanto una rivendicazione salariale ma è un passaggio culturale che dobbiamo sforzarci di portare avanti congiuntamente».
«Pronti a scendere in piazza»
Un incontro partecipato e a tratti acceso restituisce lo stato d’animo dei cooperatori sociali in un momento storico che tutti definiscono difficile. C’è chi fa appello alla vocazione del territorio («Abbiamo tante storie da raccontare che hanno fatto la qualità dei nostri servizi e abbiamo l’appoggio delle nostre comunità») e chi si lascia andare a uno sfogo amaro («Come facciamo a chiedere più idee, più impegno, più fantasia ai nostri lavoratori quando li paghiamo con un tozzo di pane? Entriamo nella contesa. A giocar di fioretto, non si va da nessuna parte»). Qualcuno lancia un allarme molto sentito: «Se questa partita non si risolverà in modo positivo, la mia cooperativa chiuderà i servizi territoriali per i minori». E ancora: «Serve un aggiornamento di sistema: i modelli nei servizi alla persona non possono essere uno schema rigido che non evolve». «Aiutateci. Questa situazione ci uccide da dentro».
Ci sono parole che ritornano: i cooperatori sociali si sentono «abbandonati, delusi, non riconosciuti». Sullo sfondo, competenze e professionalità che investono il quotidiano delle persone ma di cui il mondo sembra non accorgersi. «Se non arriveranno risposte, siamo pronti a scendere in piazza».
In apertura, una fisioterapista della cooperativa sociale Assiste di Torino durante una seduta in una struttura sanitaria e socio-sanitaria (fotografia cooperativa sociale Assiste). Le altre immagini sono di Confcooperative e dell’autrice dell’articolo
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