Cultura

Piccoli sguardi che chiedono aiuto

Due volontari del Cesvi, unici italiani presenti in un Paese allo stremo, raccontano la loro battaglia sul fronte della fame.

di Paul Ricard

«Li vediamo attraverso i vetri, della nostra auto o del nostro ufficio. Viviamo separati da loro, ma vediamo le loro sofferenze. E finalmente possiamo fare qualcosa per aiutarli». A parlare così sono le uniche voci occidentali riuscite ad entrare, e che oggi riescono a uscire, dalla Corea del Nord. Sono quelle del dottor Massimo Urbani e di sua moglie Azar, i due volontari del Cesvi di Bergamo che da qualche mese si trovano a Pyongyang per portare aiuti umanitari a una popolazione messa in ginocchio dalla fame. Ma anche il mondo, in questo 1997 che sta per finire, ha visto il dramma della Corea del Nord come attraverso un vetro, quello impenetrabile dell?ultima cortina di ferro che separa il Paese dal resto degli altri Paesi, prima di tutto dal suo opulento Sud, e che ha reso tanto difficile per tutti accorgersi che un popolo così lontano si stava lentamente spegnendo. Non sarà Natale in Corea del Nord, e non semplicemente perché la cultura è diversa, ma soprattutto perché un regime tra i più assolutisti del mondo, quello dell?ultimo stalinista Kim Jong Il, ha tentato fino allo stremo di imporre il silenziatore su quanto stava accadendo nella sua terra: le alluvioni del ?95 e ?96, innanzitutto, che hanno distrutto i raccolti, poi la siccità, i magazzini vuoti, e ancora prima il crollo dell?alleanza sovietica e cinese, che ha chiuso i rubinetti dell?assistenza alimentare. Così le poche notizie riuscite a filtrare in Occidente ci hanno parlato, già nel maggio di quest?anno, di persone ridotte a nutrirsi delle cortecce degli alberi, ad impastare torte con l?erba, di mezzo milione di bambini morti per denutrizione. Finché qualcosa si è mosso, e proprio dall?Italia, da Bergamo, sono arrivati i primi aiuti alimentari e sanitari grazie all?impegno del Cesvi, la prima organizzazione di cooperazione internazionale ad ottenere il permesso di entrare nel Paese più blindato del mondo. Il primo aereo carico di aiuti è partito all?inizio di questo mese. E per quanto possa sembrare incredibile, dal suo carico di solidarietà dipende la vita di due milioni e mezzo di persone. «Dopo l?arrivo del cargo è successa una sola cosa: si è riaccesa la speranza» ci dice il dottor Urbani. «Abbiamo ridato la luce a una candela che stava spegnendosi in silenzio. Tra pochi giorni milioni di persone avranno a disposizione farmaci che li aiuteranno a vivere. Non è poca cosa, anche per noi che fatichiamo a capire come facciano ad andare avanti». «In questi due mesi abbiamo visto come tutto un popolo, pur avendo perso tutto, non abbia però perso i valori più alti dell?uomo» gli fa eco la moglie Azar. «Rispetto, dedizione, umanità, solidarietà. Ma soprattutto i coreani non hanno perso il sorriso, anche se è pieno di pudore. In Occidente siete abituati a vedere facce di bambini tristi, che non ridono; qui appena noi sorridiamo compare, dietro gli occhi a mandorla, un sorriso caldo, che riscalda noi e loro.La gente di qui sente la necessità della presenza di qualcuno che la rispetti e la conosca». Che il silenzio che avvolge la Corea del Nord si incrini: di questo hanno soprattutto bisogno gli otto milioni di persone che rischiano la vita per la carestia. Anche perché la situazione potrebbe deteriorarsi proprio in questi giorni di dicembre a causa del freddo, che è arrivato a toccare anche i dieci gradi sotto lo zero. E le prime vittime della situazione sono i bambini. Un?intera generazione di piccoli sotto i sei anni di età rischia di estinguersi, costretta com?è a nutrirsi di un solo etto di riso al giorno, praticamente quattro cucchiai in ventiquattr?ore. Ma i coniugi Urbani sottolineano ancora un altro aspetto della tragedia coreana. «Secondo noi non sono solo affamati, e tante notizie arrivate in Occidente non sono assolutamente vere, come quelle che parlavano di casi di cannibalismo: hanno bisogno di aiuti, è vero, ma soprattutto hanno bisogno di ricominciare a vivere. Non hanno mai cessato di farlo, ma credeteci, è veramente difficile vivere quando tante cose a cui si era abituati non esistono più. I coreani hanno imparato ad aspettare. Gli aerei carichi di medicine, cibo e coperte cominciano ad arrivare, ma loro che con dignità stanno ricevendo e ringraziano continuamente, vogliono anche sapere chi c?è dietro questi aiuti, come stanno gli italiani, come sta Baggio, come vive questo popolo così lontano che non li ha lasciati soli». Così gli uffici degli Urbani, nella capitale Pyongyang, sono diventati in soli due mesi un polo di attrazione per la gente della città e per tutti coloro che dalle campagne vi si sono trasferiti in cerca di maggiori opportunità di sopravvivenza. «Ogni giorno qualcuno ci chiede con curiosità cosa conterranno gli altri aerei, quando arriveranno, quali altri progetti ci saranno», racconta ancora Azar. «È importante tornare a parlare al futuro, e il tempo, che qui sembrava essersi fermato, ritorna a essere importante. A tutti diciamo che non siamo qui solo per aiutarli, ma per vivere con loro, per lavorare, insieme a loro, per rimettere in moto questa macchina bellissima che ha solamente bisogno di veri amici. Competenti, ma soprattutto rispettosi della loro realtà».


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