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Piano di continuità civica: uno strumento fondamentale al tempo del coronavirus
Le grandi aziende, soprattutto nel settore finanziario, sono da sempre dotate di piani di continuità per affrontare le crisi, anche le più estreme. Non così le piccole-medie e le amministrazioni pubbliche. Ma la pianificazione serve a tutti, anche alla società civile organizzata. Perché dopo la "coronavirus disruption" nulla sarà più come prima
di Marco Dotti
Tra i tanti termini della gestione organizzativa quello di Business Continuity Planning non è certo il più conosciuto. Eppure, proprio in questi giorni, è facile comprenderne il senso. La necessità, soprattutto.
Dal business continuity plan…
Il 14 febbraio scorso, mentre in Italia ancora si minimizzava sul possibile impatto sistemico di covid19 e la maggioranza di governo si accapigliava con se stessa sulle norme sulla prescrizione, il Financial Times evidenziava l'ovvio: il panico si diffonde molto più velocemente di qualsiasi pandemia. E nulla aggredisce il legame sociale e l'economia più del panico.
Ricorrere alla pianificazione di continuità, soprattutto in una società complessa del rischio è uno strumento vitale. Dalla presenza o meno di questo insieme di procedure tecniche e organizzative può dipendere non solo la continuità elementare di un'attività o di un business, ma la sopravvivenza stessa di un'organizzazione.
Per quelle grandi e abituate a convivere con rischi spesso sottostimati dalle autorità, specialmente se operano nelle infrastrutture o in settori regolamentati come la finanza, un Business Continuity Plan è parte della normale cultura aziendale. Anche se questa "normalizzazione", talvolta, gioca brutti scherzi.
Ma le aziende medio-piccole – tacendo delle amministrazioni pubbliche – sottovalutano la necessità di attrezzarsi affinché siano garantiti struttura e infrastruttura, operazioni day-to-day e dipendenti.
Un esempio? La diffusa e paradossale impreparazione per il telelavoro in una città come Milano, paradossale perché incardinata sui servizi e su quello che un tempo si sarebbe chiamato terziario avanzato. Ovviamente esistono crisi e crisi: ci sono quelle che hanno un impatto minimo, come le interruzioni di energia elettrica, e ci sono le emergenze di ben diversa entità. Al di là del grado, il problema rimane: chi non ha un piano, può affidare la propria sopravvivenza alla sorte e poco più.
Molte organizzazioni, tra l'altro, ancora confondono tattiche di disaster recovery, che intervengono a cose fatte per ripristinare, e strategie di business continuity che permettono, invece, di anticipare il collasso garantendo – se e dove possibile – una continuità operativa anche a seguito di «eventi che ne minaccino le funzionalità a qualunque livello».
Ma in Italia, anziché di business continuity anche in questi giorni si è preferito parlare d'altro. Di resilienza e di aziende resilienti, ad esempio. Un termine certamente più evocativo e poetico, resilienza, ma in sostanza vuoto, quando non affidato all'estemporaneità.
… al piano di continuità civica
Riflettendo su questi temi, nelle ore in cui la Francia si trova ancora in una fase 2 di rischio, non avendo a oggi raggiunto la vera e propria preallerta epidemica, l'esperto di pianifcazione strategica Jean-Marc Yvon ha osservato che tutti i dati storici recenti dimostrano una cosa: l'entità Stato, davanti a crisi di questo tipo, risponde in maniera spesso tardiva e debole. Una riflessione che chiama in causa la società civile e il concetto stesso di sussidiarietà. Davanti a uno Stato che ritarda, possono i corpi intermedi giocare tattiche attendiste? In Francia se ne sta dibattendo. Ma c'è da pensare che anche in Italia, nei prossimi mesi, la società civile organizzata si troverà sempre più davanti a scelte dettate dal cambio di orizzonte e di paradigma innescato dal coronavirus.
L'economista Paolo Venturi, su queste pagine, ha giustamenet ricordato che non basta ricorrere ai classici strumenti di copertura del rischio (welfare state o assicurazione),. Non basta proprio per la natura sistemica della crisi che stiamo attraversando e per il fatto che, anche in questa fase, i primi beni a trovarsi esposti sono quelli di natura primaria e comune come la fiducia.
Serve ben altro. Servono strumenti di pianificazione coerente, che tengano insieme mezzi e fini, vocazione e organizzazione, cooperazione e capacità di tessere nuove reti. Serve che, grazie alla spinta degli ambienti culturali più avanzati del Terzo settore, si avvii una riflessione vera sul nostro agire, sul nostro comunicare, sul nostro pensare e pensarci insieme. Per dare continuità, ma innovando. Servono piani di continuità civica.
Al di là della gravissima emergenza sanitaria, infatti, è oramai chiaro che quella che stiamo attraversando, per riprendere un titolo del Wall Street Journal, è una coronavirus disruptions non solo economica, ma sociale. Nulla sarà più come prima, che ci piaccia o no.
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