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Piano Colao: bene il welfare di prossimità, ma sia comunitario e non comunale

È incoraggiante leggere che la proposta si orienta nella direzione di un welfare trasformato, generativo. «Il rischio che intravediamo però», sottolinea il presidente di fondazione Èbbene, «è che quello proposto sia un modello destinato a creare un nuovo servizio fornito dai Comuni, e questo lo renderebbe già in partenza un fallimento»

di Dino Barbarossa

Quando nel 2012 Fondazione Ebbene ha iniziato a sperimentare il welfare di Prossimità per i più era un esperimento “visionario”. Oggi, dopo 8 anni e le migliaia di persone accompagnate verso l’autonomia, quella che sembrava una sperimentazione partita dalla Sicilia e poi approdata in tutta Italia non è più una visione ma un progetto, sperimentato, al servizio del Paese ed al quale si guarda per rilanciare la coesione sociale.

È certamente incoraggiante leggere che la proposta di rilancio per l’Italia si orienta nella direzione di un welfare trasformato, generativo ma soprattutto di Prossimità. Quello che cambierà il risultato sarà la logica con cui mettere in campo quella che appare come una riforma necessaria. Nulla da dire sulle premesse del documento targato Colao, il rischio che intravediamo è che quello proposto sia un modello destinato a creare un nuovo servizio fornito dai Comuni, questo lo renderebbe già in partenza un fallimento.

Se quello che si immagina è un welfare di Prossimità il punto di partenza è la relazione che si crea tra le persone, quella che necessita di un accompagnamento e quella che questo accompagnamento lo sostiene. Non si tratta di un’azione erogativa, di una prestazione, ma di un progetto collaborativo agito in via sussidiaria da organizzazioni del Terzo Settore con il sostegno del Pubblico e il protagonismo dei cittadini.

È​ proprio il progetto costruito intorno alle persone che farà la differenza, sconfiggendo quell’indifferenza che è la “cifra” della società in cui viviamo.Il rischio altrimenti è quello di incappare nello stesso vicolo cieco del RdC, un’azione istituzionale ed erogativa che non porta alla risoluzione del problema ma all’illusione di una povertà che diminuisce. La partita si giocherà anche sulla territorialità e la strutturazione dei presidi come strutture comunali multiservizio di incontro, orientamento e intervento rivolti a individui, famiglie, anziani, gruppi di pari lascia qualche perplessità.

In questi 8 anni questi presidi, che esistono già in Italia, li abbiamo chiamati Centri di Prossimità, non stanno dentro i Comuni ma in effetti hanno funzionato come spazi di incontro tra le persone dove attivare percorsi di autonomia per chi ne ha necessità e mettere insieme, alla luce di un approccio multidimensionale, le opportunità del territorio. Il lavoro nei Centri ha garantito sostenibilità agli interventi di welfare, ottimizzazione delle risorse, ha prodotto tante storie di persone che sono riuscite a rialzarsi così come oggi deve fare il nostro Paese. Perché funzionino, però, non serve però che siano “comunali” ma “comunitari”, la loro diffusione inciderà certamente sul risultato, e se è utopistico pensare che gli ee.ll. abbiano la disponibilità ampia di spazi, è molto più coerente immaginare che – insieme a una riforma ampia della gestione del patrimonio immobiliare pubblico con uno snellimento delle procedure di affidamento – il privato sociale organizzato metta a disposizione luoghi da dedicare al welfare di prossimità.

Se riforma dev’essere allora sono i ruoli e il piano del dialogo a dover radicalmente mutare e questo passa dal riconoscimento del valore economico delle strutture e dell’apporto volontario che le organizzazioni del Terzo Settore e i presidi di cittadinanza attiva mettono in campo, oggi come domani.

Il covid insegna che il Paese ha bisogno delle energie delle comunità resilienti, non servono stampelle da attivare in emergenza ma punte avanzate di uno sviluppo basato su quell’economia circolare che rigenera le persone e con esse i luoghi.

C’è una Comunità che si nutre di relazioni, che crea le condizioni perché si costruisca un circuito virtuoso nel quale nessuno resta escluso: i Centri di prossimità sono al centro della Comunità e connettono le persone che la abitano, in modo che ciascuno abbia un suo compito, camminando con il suo passo. Non solo servizi in risposta ad esigenze, ma anche momenti di aggregazione, tempi di riflessione, progetti costruiti insieme per migliorare gli spazi vitali della Comunità.

La Prossimità è una cosa seria, indica Vicinanza e senza la Relazione e la Reciprocità non modifica le differenze di status fra chi si fa prossimo all’altro, spesso al povero.Ma se si accetta il fatto che la persona con cui ti relazioni è una risorsa per te e non solo qualcuno da aiutare e sostenere, allora la Prossimità diventa Reciprocità e si riempie di nuovi significati, restituisce senso al principio di egualità e di dignità che è all’origine della vita. La donazione ricevuta – di tempo o di denaro – non è un sostegno, ma uno strumento moltiplicatore che permette di cambiare realmente la vita delle persone.

Vogliamo leggere le proposte presentate al Presidente Conte in questa direzione, e a disposizione di questa trasformazione mettiamo il nostro modello di Prossimità, il metodo fondato sulle 4A (Accoglienza, Ascolto, Accompagnamento, Autonomia) che in questi anni abbiamo sperimentato rendendo Ebbene la prima e unica Fondazione nazionale di Prossimità.

Stima e fiducia sono le parole chiave della Prossimità, fondano la certezza che la persona, avendo la giusta dignità, può generare percorsi di bene comune. Nella logica della Prossimità, l’altro è il termine di paragone con cui confrontarsi, l’incrocio con le sue aspirazioni la guida, l’ecologia integrale il percorso. È una rivoluzione, ma se non ora, quando?

*Dino Barbarossa presidente fondazione Èbbene

FOTO REMO CASILLI/AG.SINTESI

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