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Ambiente e salute

Pfas, ecco come ci sono entrati nel sangue

Una scienziata americana del centro ricerche di 3M fa una scoperta sconvolgente: il sangue umano, quasi ovunque, contiene i contaminanti chimici prodotti dall’azienda per cui lavora. Ancor più incredibile è il silenzio che segue alla sua rivelazione. Lo racconta il New Yorker in un’inchiesta avvincente come un thriller, che dimostra la consapevolezza del mondo produttivo, dagli Usa all’Italia, sui rischi per la salute delle sostanze per- e polifluoroalchiliche

di Elisa Cozzarini

Gli scienziati del Progetto Manhattan non hanno creato solo la bomba atomica. Sono responsabili anche dello sviluppo delle sostanze per- e polifluoroalchiliche, gli “inquinanti eterni”. Lo racconta il New Yorker in una lunga inchiesta realizzata con l’agenzia di stampa non profit ProPublica. La Minnesota Mining and Manufactoring Company – 3M, famosa per l’invenzione dello scotch e dei post-it, dopo la seconda guerra mondiale assume alcuni chimici del Progetto Manhattan e inizia la produzione di catene di carbonio legate con atomi di fluoro. Sono sostanze che si rivelano incredibilmente versatili e resistenti. Letteralmente, da allora si diffondono ovunque, attraverso oggetti di uso quotidiano, tanto da comparire anche nel sangue delle persone e degli animali. L’azienda, e il mondo produttivo, ne sono consapevoli da decenni, ma lo tengono segreto.

Il racconto di una ex dipendente

A rivelarlo è proprio l’inchiesta della giornalista americana Sharon Lerner, realizzata grazie alla testimonianza e alle prove portate dalla scienziata Kris Hansen, ex dipendente di 3M. Nel 1997, quando è assunta da solo un anno, racconta che il suo capo, Jim Johnson, le assegna uno strano compito: ricercare eventuali contaminazioni chimiche nel sangue non solo dei dipendenti, ma della popolazione in generale. Lei le trova, con grande sorpresa. Ma ancor più si sorprende dell’assenza di reazioni all’interno dell’azienda, è come se non avesse scoperto nulla.

La scienziata non sa che 3M già da vent’anni è al corrente della tossicità di uno dei suoi prodotti: il Pfos, testato sugli animali. Il suo capo va in pensione anticipata e lei viene messa alla prova. Non le credono, o fingono di non crederle. Ipotizzano che sia la sua strumentazione a contenere sostanze perfluoroalchiliche. Lei, per trovare sangue libero da Pfos, deve analizzare un campione raccolto nella Cina rurale tra gli anni Ottanta e Novanta, in un luogo e un tempo non ancora raggiunti dai prodotti di 3M. Ma nessuno le dà retta, anzi, viene sempre più emarginata, si sente perseguitata e in pericolo.

Eppure le sue scoperte hanno conseguenze importanti. In base alla legge federale, negli Stati Uniti le aziende sono obbligate a informare l’Agenzia per la protezione dell’ambiente – Epa di ogni possibile rischio per la salute umana o l’ambiente. 3M informa l’Agenzia e si trova costretta suo malgrado a interrompere la produzione di Pfos. Nel 2000 rivela finalmente alla stampa che queste sostanze si trovano nel sangue degli esseri umani, ma non sarebbero pericolose. Agli inizi del nuovo millennio cambiano nome in Pfas.

Dagli USA all’Italia

Nel 1999, uno studio sui Pfoa nelle scimmie dimostra le gravi conseguenze dell’assunzione di queste sostanze per gli animali, tanto che 3M decide di fermare la produzione. DuPont, che utilizza i Pfoa per produtte Teflon, invece, non si ferma. Si rivolge all’italiana Miteni che, pur essendo al corrente dei problemi per la salute, assicura la fornitura al colosso americano. A raccontarlo, un anno fa davanti alla Corte d’Assise di Vicenza, è l’avvocato Rob Bilott, uno dei testimoni chiave dell’accusa nel processo Miteni. La sua deposizione dimostra che, almeno tredici anni prima della pubblicazione dello studio del Cnr sulla contaminazione della falda che forniva acqua a 350.000 persone in Veneto, l’azienda era al corrente della pericolosità delle sostanze chimiche che produceva.

La storia vera di Rob Bilott nel 2019 è diventata un film: Dark Waters, uscito in Italia con il titolo di Cattive acque. L’avvocato fa causa a DuPont per conto di un contadino della Virginia, William Tennants, che collega la morte delle sue vacche alla contaminazione delle acque. Così Bilott per la prima volta sente parlare di Pfoa, scoprendo una lettera inviata dall’azienda all’Epa. Riesce a esaminare i documenti di DuPont su questa sostanza sconosciuta. Sin dagli anni Novanta è chiaro, da studi interni all’azienda, che i Pfoa sono responsabili del cancro ai testicoli, al pancreas e al fegato nei topi di laboratorio. Nonostante questo, continua a utilizzarli. Ma come si arriva alle vacche di Tennants? Bilott scopre che negli anni Ottanta DuPont individua nel terreno vicino ai pascoli un luogo dove sversare i resti di lavorazione. L’allevatore ha ragione.

Nel 2010 il procuratore generale del Minnesota condanna 3M per aver danneggiato l’ambiente e inquinato l’acqua potabile. L’azienda paga 850 milioni di dollari di risarcimento, senza però mai ammettere le proprie responsabilità.

Il miraggio del limite zero

«L’inquinamento dell’acqua potabile da Pfas colpisce le comunità di questo Pese da troppo tempo. Oggi sono orgoglioso di portare a termine un percorso che porterà a salvare migliaia di vite e contribuirà a garantire che i nostri figli possano crescere più sani», ha affermato il direttore dell’Epa Michael Regan in occasione dell’approvazione della nuova legge statunitense che pone il limite di 4 nanogrammi per litro per Pfos e Pfoa e di 10 nanogrammi per litro per altri tre composti chimici, tra cui il GenX.

Parliamo di livelli davvero molto bassi. Basti pensare che la direttiva europea 2184 del 2020, che stabilisce i nuovi requisiti di qualità per l’acqua potabile, prevede che non si possano superare i 100 nanogrammi per litro per la somma di venti Pfas e 500 nanogrammi per litro per tutti i Pfas, a partire dal 2026. Per capire l’entità della contaminazione in Veneto, lo studio del Cnr pubblicato nel 2013 documentava la presenza di concentrazioni di Pfoa «molto elevate, spesso superiori a 1.000 nanogrammi per litro».

La foto in apertura è di Foto di Girl with red hat su Unsplash, all’interno foto di Elisa Cozzarini.


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