Welfare

«Persone non problemi. Questo è il mio metodo»

Don Gino Rigoldi faccia a faccia con Franco Bomprezzi

di Franco Bomprezzi

Don Gino Rigoldi mostra con soddisfazione un bel pannello, nel suo piccolo studio, nella sede di Comunità Nuova, alla periferia sud di Milano. Tante firme illustri per i suoi 70 anni. Nomi famosi, ma soprattutto amici, e compagni di strada. Parliamo come si parla tra amici, una confidenza tira l’altra, ma questo rende difficile l’intervista, perché don Gino pensa più velocemente di come parla, e le frasi sono accenni, spunti, quasi simboli, pennellate di un quadro che in realtà è la sua vita, il suo presente, ma soprattutto il suo futuro.

Che sensazione ti dà essere una persona alla quale molti guardano per capire?

È vero, però ci sono delle opzioni fondamentali.

Dire per esempio che il centro dell’educazione è la relazione, come si sta con gli altri, qualifica la vita. È un pilastro fondamentale assolutamente trascurato. I genitori addestrano i figli a fare attenzione, alla diffidenza, mica a essere gratuitamente amici degli altri.

Nella tua vita ha contato di più la tua esperienza pratica o l’aggiornamento culturale?

Leggere saggi sull’educazione giovanile è un modo per aprirsi al mondo. Certo è che per far diventare carne le cose che leggi devi avere un rapporto continuo con questi giovani. Più che parlarci, ascoltare. E forse ancor più dell’ascolto, sai cos’è che funziona? Un ascolto nel quale tu fai da guida e te ne occupi.

Quando si accorgono che un adulto dà loro importanza – hanno bisogno di qualche cosa, di cercare un lavoro, ad esempio – e si accorgono che tu ci sei, scatta la relazione, e diventa abbastanza semplice.

Ci spieghi meglio?

Ogni tanto ?punto? qualcuno. Ragazzo o ragazza. Adesso per esempio sto puntando uno che è un ?delinquentone?, cattivo… Il momento in cui si accorge che tu sei con lui, non con le parole ma coi fatti, cioè quello che prometti mantieni, cambia, ma cambia in maniera tremenda. Perché pensa: «Adesso non mi sento più solo».

Ma un ragazzo così, è un delinquente ?per natura??

Ma no. Quando tu caschi in un quartiere qualunque, cominci ad avere una famiglia un po’ qualunque, magari cerchi lavoro o scuola e non riesci a collocarti, non sai bene cosa fare nel posto dove sei, allora tiri fuori le unghie e vai nella giungla. Magari perché vuoi procurati delle cose, le scarpe firmate…

Come sono cambiati i ragazzi da quando c’è Comunità Nuova?

All’inizio avevamo tutti italiani. La grande massa, quelli che adesso sono gli stranieri, erano gli immigrati dal Sud. Erano ragazzi un po’ confusi, robusti, con l’idea di raggiungere obiettivi che erano soprattutto economici. Con l’idea di poterci riuscire, qualcuno nel bene, qualcuno anche nel male. Nel carcere minorile passavano mille persone e gli educatori erano il direttore, Salvatori – straordinario -, il cappellano (io) e un educatore a metà tempo. Basta. I crimini però erano diversi, meno ambigui di quelli di oggi.

C’era anche un problema di identità sociale…

Un ragazzo assorbe molte delle sue speranze, delle sue ambizioni di futuro, da come si comportano i suoi genitori. Chi non riesce, nella vita, ad agganciare qualche maestro, galleggia. Allora, in quell’epoca, c’erano bande di professionisti, i ragazzi venivano dalla Comasina, da Quarto Oggiaro, avevano grandi modelli: Vallanzasca, Epaminonda. Erano più ?muscolari?, ma anche loro alla ricerca di una identità.

Quanto ha inciso la droga, in tutti questi anni?

La droga ha ammazzato un sacco di gente. Ho fatto duecento, trecento funerali. A Baggio trent’anni fa più che l’eroina c’era la morfina, tanto fumo e acidi.

A Quarto Oggiaro tanta anfetamina. L’eroina ha dimezzato una generazione, forse due. Adesso c’è tanta cocaina, il fumo è sempre forte tra gli adolescenti, e mica soltanto loro. La cocaina è dei maggiorenni. Stressati, confusi, depressi, hanno un logorìo pazzesco. Tanto su, tanto giù, e poi bevono.

Come vedi questa generazione di giovani?

Hanno un’idea di futuro ridotta al minimo, pensano che domani o dopodomani è finita lì… Speranza di grandi cose, poca. Tendenzialmente abbastanza ?depressini?. Ideali? È come se non ci credessero più ma, a seconda di quello che gli dici o gli fai fare, cambia tutto.

La formazione degli operatori, in questo contesto, è centrale.

Per essere un operatore bisogna che la persona stia abbastanza bene con se stessa. Non giudicare mai, ma essere pronti a stabilire una relazione.

Io ho un principio generale: i problemi sono fatti per essere risolti.

Quando incontri un problema non devi chiederti di chi è la colpa, ma come si fa a risolverlo.

Che cosa si potrebbe realizzare, magari spendendo poco?

L’importante è far funzionare bene le strutture dove i giovani già ci sono. Istituzionalmente o per abitudine. Cioè la scuola, le società sportive, gli oratori, i luoghi della cultura dedicati ai giovani. Questi sono posti già preparati per essere educativi. C’è bisogno che la gente che c’è lì, anche con poca spesa, impari, ragioni, venga stimolata.

Un esempio?

A Baggio ci sono sei campi sportivi, tutti si lamentano perché il Comune li fa pagare troppo. Ecco io direi: non vi faccio pagare l’affitto, ma esigo che gli allenatori si mettano in discussione, stabiliscano una relazione di tipo educativo. Lo stesso dicasi per gli oratori, che ci sono e sono luoghi insostituibili. Per la scuola l’attenzione va portata alle prime due classi delle superiori, dove ce ne perdiamo il 50%. Non hanno ancora 16 anni e dunque non vanno più a scuola, non vanno a lavorare…

va da sé che si sbandano.

Dove si intercettano, adesso, i giovani?

Anni fa andavamo nelle discoteche. Ora vedo, nelle periferie, nei comuni dell’hinterland, i centri commerciali, i multisala: è lì che bisognerebbe essere presenti con qualche operatore in gamba.

Ti ha aiutato in questo lungo percorso di attività essere un sacerdote?

Sì, è un pass, in qualche misura. Anche se funziona di più il nome Gino che il ?don?.

70 anni: pensi ancora a cosa fare da grande?

Sì, in un certo senso sì. Un po’ perché sono accompagnato, e anche un po’ pressato, da una serie di bisogni.

Quanti ?figli? hai?

Qualche centinaio!

Non ti è mancata la genitorialità?

No, assolutamente. Ho due ragazzi che hanno addirittura il mio cognome, adesso forse un terzo…

Ci vuole un approccio differente con i ragazzi stranieri?

Con gli stranieri abbiamo fatto delle cose belle e poi le abbiamo perse per strada. Siamo noi che dobbiamo andare da loro; non vengono da noi perché nessuno mai li ha trattati bene. Non c’è un problema per esempio di islam: i ragazzi stranieri sono in grandissima maggioranza cristiani. Faccio incontri con gruppi di ragazzi islamici, e li trovo sempre arrabbiati perché sono considerati un pericolo pubblico. Ma sono stato sorpreso nel trovare un certo numero di ragazzi italiani convertiti all’Islam.

Di chi è la responsabilità?

La Chiesa, più che parlare di Gesù, parla di se stessa. L’ostacolo maggiore per predicare il Vangelo e per convertire la gente è la Chiesa. Perché si mette lì come una barriera. Sto finendo di scrivere un libro – penso che lo consegnerò per febbraio-marzo -, si chiama Manuale del buon cristiano.

La fede è un rapporto personale con Gesù Cristo, dentro la comunità, ma non come ?annegato? in una comunità.

Se tu dovessi ora cercare di avvicinare un giovane a questo ?lavoro?, che cosa gli diresti?

Questo dell’educatore è diventato un lavoro. Un lavoro pieno di disoccupati, sottopagato. E allora un po’ si è ingrigita l’immagine dell’educatore. Certo è che un educatore ha bisogno di trovarsi in compagnia di qualcuno, o di un gruppo che sia appassionato di educazione. Occorre passione, studio, e il piacere di essere educatore. In realtà è bene che oggi ognuno faccia l’educatore, anche facendo l’ingegnere, o l’idraulico. La prima regola è togliersi dalla testa il giudizio. Le persone non sono mai quello che fanno. C’è sempre un motivo per il quale si agisce. Non bisogna mai avere paura degli esseri umani.

Non solo la paura fisica, ma la paura di capire, di conoscere.


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